lunedì 28 ottobre 2013

Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti..

Innanzitutto ci tengo a sottolineare che, nonostante il titolo, non si tratta di un post di Ferma! Se lo fosse, sarebbe scritto molto meglio..

Questa sera mentre cenavo tranquillo tranquillo in casa mia, mi sono imbattuto in questo articolo:


e sarebbe stato difficile il contrario, visto lo stillicidio di condivisioni che ha suscitato tra i miei contatti italiani!

Stavo mangiando un ottimo piatto di pasta al sugo di carciofi, un esperimento ben riuscito, ma riga dopo riga mi è montata la rabbia, tanto da spingermi a mettere da parte il cibo per dedicarmi a scrivere questo post-sfogo. E chi mi conosce sa bene quanto sia raro, se non impossibile, che io avanzi della pasta!

Non sto qui a raccontare nel dettaglio quello che c'è scritto nell'articolo, sarebbe noioso e inutile, visto che non è direttamente questo che mi ha colpito. In generale si tratta del solito canovaccio, un giornalista straniero arriva in Italia, e e ci descrive come il "Bel Paese" in rovina, a causa della malafede dei suoi governanti da un lato, e della passività dei governati dall'altro, capaci solo a lamentarsi gesticolando come fossero in un'opera teatrale. La pretesa è quella di descrivere il disagio, l'incuria, e la rassegnazione dell'Italia, attraverso aneddoti e interviste a personaggi di dubbia attendibilità quali: Ignazio Marino, Paolo Crepet, e una 70enne marchigiana. Dei tre, l'ultima potrebbe essere la più attendibile, il che è tutto dire..

Immaginate che un giornalista straniero voglia fare un reportage sull'attualità italiana e venga ad intervistare vostra nonna. Se capitasse alla mia risulterebbe che Berlusconi ha un indice di gradimento del 110%, che il pericolo è quel comunista di Baffetto aka D'Alema, e che se non vai a messa la domenica sei per forza un ebreo (cit. nonna Pina).
Ci tengo a sottolineare che voglio un bene dell'anima alla suddetta nonna, e che ogni volta che parliamo di politica sono fuochi d'artificio, che si concludono con zoccoli volanti, e ottimi biscotti al cioccolato!

Quello che mi ha fatto rodere è che questo articolo abbia riscosso molto successo, tanto da essere condiviso da persone che godono della mia stima, gente che viaggia o che ha viaggiato, persone che si informano e che non stanno passivamente ad assorbire qualsiasi amenità ci propini la televisione.
Ciò mi ha portato ad una amara riflessione.
Se proprio noi, i cosiddetti "giovani", ci arrendiamo a credere e ancora peggio a rispecchiarci in ritratti banali e superficiali come questi della realtà del nostro paese, allora dobbiamo farci delle domande!
Questo spirito di arrendevolezza, del "tanto son tutti uguali" e del "tanto non cambierà mai niente", è di una gravità spropositata di per sè. Ma non sarà mai tanto grave quanto il colpevole ritrovarsi in descrizioni faziose, degradanti e soprattutto sbagliate della nostra realtà!
Non è vero che siamo un popolo destinato ad essere comandato più che governato, non è vero che siamo inermi e che non riusciamo a reagire alla merda che ci spalano addosso dall'alto.

Se quello stesso giornalista avesse visitato Roma qualche giorno prima, magari si sarebbe imbattuto in una imponente manifestazione dove immigrati, no-tav, centri sociali, e tutta una costellazione di associazioni della società civile, hanno sfilato e protestato contro questa politica infame, senza intoppi o incidenti. Eccezion fatta per un paio di episodi, che però sono bastati a far deviare l'attenzione di tutti mass media (senza eccezioni da destra a sinistra) dai motivi della protesta a quei pochi secondi di violenza.
Qui un articolo che spiega un po' meglio quanto ho appena accennato:


Tornando a noi, quello che è più grave è che ci crediamo, basta leggere da qualche parte quanto è malmessa la nostra Italia, magari con qualche frasuccia che faccia trapelare il rammarico dell'autore, perchè è proprio un peccato che un paese così bello sia abitato da gente così inetta, così abituata ad essere trattata a pesci in faccia da non sentirne più neanche il fetore. E noi, pure io mi ci metto, siamo lì a leggere, quasi commossi, e magari pensiamo a quanto sarebbe bello se le cose fossero diverse!

Uno potrebbe arrendersi all'evidenza, e dire che ormai siamo il paese dove uno come Fabio Volo scrive un libro dopo l'altro, e incredibilmente un sacco di gente lo segue e si legge le sue storie piene di banalità, frasi fatte che manco i baci perugina, e luoghi comuni travestiti da storie d'amore!
Qui un altro link che ben descrive il mio punto di vista:


Oppure siamo il paese dove per sentirsi di sinistra la gente guarda i programmi di Fabio Fazio, dove tra un omaggio a De Andrè e un'intervento della "dissacrante" Litizzetto, va in scena la farsa di mille interviste, asservite ed ossequiose verso chi governa, e ironiche e canzonatorie verso chi invece non fa parte di questo sistema. Molle con i potenti, forte con i più deboli.

Ecco, io non mi voglio arrendere a questo stato di cose, e non posso e non voglio pensare che ormai questa perdita di fiducia sia irreparabile. Non voglio specchiarmi in questa realtà faziosa, in questo oblio della volontà che in tanti auspicano, perchè un popolo bue è più facile da governare!

Una volta era contro il menefreghismo colpevole della "borghesia" che ci si scagliava per gridare alla rivoluzione, oggi invece è da noi stessi che dobbiamo guardarci! Dalla facile comodità di opinioni disfattiste, dal disinteresse e dalla superficialità!

Perchè altrimenti nessuno potrà dirsi innocente.

lunedì 21 ottobre 2013

Se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo



Lione non è Quito, né Città del Messico. Qui gli autobus sono puliti, la metropolitana non è un covo di ladruncoli, la sera tornando verso casa non trovi uomini moribondi riversi nel proprio sangue sotto un lampione. La Francia di Hollande è altro. Ma anche a Lione alcuni strati sociali sopravvivono moribondi all'emarginazione.

Tutte le mattine prendo l'autobus 46 e tutte le mattine, approcciando la stazione, non riesco a distogliere lo sguardo da quello che c'è oltre il finestrino. A volte indugio sugli altri passeggeri per capire quello che prova il lionese. Oltre quel finestrino, al passare sotto ponte Kitchener una distesa di tende da campeggio si perde nell'ombra della campata, sui piloni campeggiano manifesti elettorali del Fronte Nazionale. I passeggeri ancora assonnati si volgono quasi sempre dall'altro lato. Il primo giorno qui a Lione credevo che quella fosse una protesta, in fondo la Francia è il Paese della greve, delle lotte studentesche. Giorno dopo giorno e con l'arrivo dell'inverno diventava chiaro che quell'ammasso di tende è la vita quotidiana di decine di rom. A qualsiasi ora del giorno si passi da quella ferita aperta si troveranno bambini, adolescenti, uomini e donne brulicare. Sembra quasi aspettino solo che faccia sera. Avrei voluto parlarci, fotografare il contrasto dei manifesti dell'estrema destra e l'indifferenza dei rom, ma tutte le volte che ci ho provato mi è sembrato inopportuno farlo. "Ciao, come ve la passate qua? Per avere l'acqua dovete andare al fiume vero, non deve essere una passeggiata. Posso fare due foto e poi andarmene?". "Per lo zoo devi prendere la metro fino al parco della Ttete d'Or" avrebbero avuto ragione di rispondermi. Così seguo ogni mattina a immaginare la vita in una tenda, a pochi metri dal centro della seconda o terza città della Francia, con questo freddo ottobrino già insopportabile. 

Non solo i rom, i quali in fondo della società lionese, francese o occidentale non vogliono forse neanche far parte. Stasera nel tornare verso casa in una metropolitana mezza vuota, un gruppetto di adolescenti (quella che a studio aperto, esaltati, chiamerebbero una babygang) ha iniziato a insultare delle ragazze. Non so se la reazione che io e gli altri pochi passeggeri abbiamo avuto sia quella più giusta. L'epilogo, sul momento, è stato solo uno sputo del più esaltato di questi, mentre il portellone si chiudeva. Quello che poi sarà di questi ragazzi non posso invece dirlo. E' la Lione più emarginata, dalla società, forse da sé stessa. Un penoso tunnel scavato nel multietnico formicaio francese.

Ricordo come la notte in Africa cancellasse ogni differenza. Bianco, nero, ricco o povero che tu fossi, in quel momento eri solo il rumore dei tuoi passi, sulla fronte nessuna etichetta. E per poche ore dimenticavi tutto. Allo stesso modo il buio in cui risplendevano stasera le luci della città sui due fiumi, vista dall'alto di Notre Dame de Fourviere ha sciacquato via lo schifo visto durante il giorno. Qui ancora nessuno è condannato a cinquemila anni più le spese.

venerdì 18 ottobre 2013

Note a margine - Impallonati leggermente sotto il deserto. Del Sahara

Non mi capitava di parlare di calcio da un bel po'. Salvo utilizzare a casa Bertone, o prima in via Mantovani durante la scrittura della tesi, i rimasugli delle mie conoscenze calcistiche ferme al 2008 - e con grossi buchi - durante le partite a PES 6 per PS2 con Ciccio e Mellone. Ah, le focaccine di Mellone.
Questo post, per altro, è leggermente connesso all'uso improprio che Mellone faceva dei terzini del Celtic, stessa cosa che Ciccio faceva con Marco "ilDio" Cassetti.

Buona parte degli individui di sesso maschile che ho conosciuto qui, o con i quali semplicemente ho scambiato qualche chiacchiera in un miscuglio stentato di spagnolo, portoghese e crioulo,


si è presentato dicendo di chiamarsi Cristiano Ronaldo, specie se in giro era presente un qualche individuo di sesso femminile

o

ha sostenuto, nel corso delle conversazione, che Cristiano Ronaldo è um muito bom jugador e, se non ho capito male, che il solo fatto che si tratti di un portoghese lo rende inequivocabilmente più forte di Messi. 

Sostenere, questa conversazione è molto semplice: basta rispondere che a mì tambè, n'gosta de Cristiano Ronaldo. Basta una risposta come questa per scatenare una serie di apprezzamenti per le tue capacità tecnico-valutative sufficienti ad ottemperare a qualsiasi tua mancanza di conoscenza nell'ambito dello sport più amato del mondo. L'ideologia prevede i seguenti dogmi:

Cristiano Ronaldo è fortissimo
Messi è una merda
Il Real Madrid è fortissimo
Il Barcellona è una merda

Qualche giorno fa ho incontrato dei volontari italiani - erano qui per risistemare gli impianti elettrici di alcune strutture nella capitale - i quali sostenevano di essere stati allo stadio di Bissau, e di aver assistito a 5 invasioni di campo, una per ogni gol, e ognuna pacificamente esauritasi al termine dell'esultanza del marcatore. 

Un ragazzino che abbiamo conosciuto la scorsa settimana - e che pretendeva di sposare la volontaria polacca del nostro progetto - ha ripetuto continuamente che "nao gagnou au jogo, nao puedo comer agora", ossia che la cocente sconfitta alla partita di calcio tenutasi il pomeriggio stesso era talmente disonorevole da non riuscire a mangiare. Ma per chiedere ad una ragazza polacca di sposarti non c'è onta che tenga. 

Tengo a sottolineare che la porta sullo sfondo in realtà l'abbiamo utilizzata come delimitazione della linea laterale del campo, e che la situazione apparentemente statica non è rappresentativa dei ritmi di gioco sostenuti durante il match, non per quanto mi riguarda ovviamente.

Sono andato a giocare a calcio ieri. Ci sono andato con Djinde, Cèsar e Sylvia dopo che i ragazzi del negozio con i quali cerco di esercitarmi con il criolo destando costantemente fragorose risate e ai quali sovente mi rivolgo dicendo "no te entendì nada", mi hanno proposto incoscientemente per loro e per me di andare a giocare con loro nel pomeriggio.

Arrivato al campo, sono uno dei pochi con le scarpe. La maggior parte indossa sandaletti in gomma di quelli che si usano sugli scogli. Il più piccolo, rifilato in porta, neanche le indossa le scarpe. E ciò nonostante, a fine partita è uscito dalla porta regalandoci il gol del pareggio con un paio di dribbling di tacco e un piattone piazzatissimo in porta. 
La disparità di strumenti a disposizione non è stata minimamente sufficiente a colmare il divario fisico e carismatico tra il peggiore di loro e me. 

Io e Cèsar eravamo gli unici due su 18 sui cui addominali non fosse possibile grattuggiare il grana padano. 

I primi 20 minuti mi hanno visto colpevole dei primi due gol subiti, uno dei quali per il fatto che l'ubicazione della porta non mi era ancora del tutto chiara - e vi giuro che era del tutto immaginaria, nonostante tutti sapessero benissimo quando la palla entrava "in rete" e quando no.
Si muovono tutti rapidissimi, il pallone è sempre circondato da almeno 4 persone, a ogni tocco in 5 chiamano la palla, ma tutti - tranne me, ovviamente - sanno benissimo che il pallone o te lo vai a prendere o difficile che te lo passino, dati i ritmi forsennati di gioco e la rapidità con cui cambia il possesso palla. Questa considerazione è stata formalizzata e intimatami da uno degli avversari che compassionevole mi ha sconsigliato di correre senza palla nel tentativo di smarcarmi, il passaggio è solo la soluzione estrema per evitare di perdere il pallone. 

Non c'è ironia in quello che per dire, ma ho fatto fatica per i primi 20 minuti a distinguere i miei compagni di squadra dagli avversari. Fortunatamente si decide di distinguere le due squadre, per cui la mia squadra giocherà senza maglietta. Cambia poco comunque, ma pazienza. 
In ogni caso, calcio champagne. Il loro. Contrasti, dribbling aerei, finezze a go-go. Mancavano solo le esultanze di Oba-Oba Martins.
Tra schiamazzi incomprensibili e tentativi di stabilire il punteggio finale, dopo una contrattazione a fine partita pare che le due squadre si attestino sul 6 a 6. Il match si conclude alle 19 in punto; si tratta del primo avvenimento in questo posto che inizia e finisce all'orario previsto. 

Da questa partita, in ogni caso, sono sicuro di aver imparato che:
- se pensi di essere scarso quando giochi nei comodi campi a 5 con l'erbetta sintetica e le scarpe coi tacchetti, e sopratutto con dei bianchi, aspetta di giocare in Africa per decidere a quanti metri sotto il terreno porre la tua autostima calcistica;
- che se giochi con onestà intellettuale, non servono linee di campo nè di porta;
- che nei bianchi l'Africa ripone molte aspettative, e che in ogni caso queste vengono deluse;
- che si può dire "bom jogo" alla fine della partita a un tuo compagno di squadra, anche se ha giocato palesemente malissimo.

E che, alla prossima partita, nonostante tu sia un bianco dell'Italia meridionale tra i più scarsi che esistano, probabilmente ti chiameranno comunque. 



Stessi occhi, vecchi sguardi.



Ieri sera sono rimasto in università fino a tardi, si perchè l’università dove studio è aperta 24 ore su 24, sette giorni su sette. Ci sono guardie armate che ogni tanto si fanno un giro per controllare, ma permettono a tutti di entrare e di usufruire degli spazi. Puoi usare i computre (tanti) disseminati per corridoi e laboratori, oppure puoi metterti a studiare nelle aule, che sono sempre aperte.


Nel pomeriggio invece stavo studiando in biblioteca, un’altro edificio nuovissimo di cui 5 piani aperti al pubblico e il resto uffici. Li ogni piano ha la sua specificità, puoi scegliere se andare al terzo, dove oltre ai tavoli normali, ci sono camere insonorizzate, fatte appositamente per chi deve studiare in gruppo. Oppure puoi andare al quinto, dove ci sono altre camere, arredate quasi meglio di casa mia, con divani e poltrone, dove puoi metterti comodamente a guardare un film su schermi piatti giganti. 
Ah quasi dimenticavo che in ogni piano ci sono ovviamente computer, per studiare e altri appositamente per cercare libri nel database della biblioteca, e scanner, si scanner che ti permettono di mettere su chiavetta tutto il materiale di cui hai bisogno, senza controllo alcuno.


Ogni piano, della biblioteca e dell’università, è provvisto inoltre di grandi vetrate, da cui ti godi lo spettacolo della città illuminata di notte, e delle Ande di giorno. Il Ruco e il Guagua (vecchio e giovane in quicwa) Pichincha ti guardano mansueti dall’alto, e riesci a scorgere dove finisce la città, con le ultime case aggrappate alle pendici delle montagne, e dove comincia la foresta che accompagna la vista quasi fino alla vetta, dove si arriva ai 4000 metri.
Dicevo, che sono rimasto a studiare fino a tardi, era quasi mezzanotte quando sono uscito. Purtroppo a quell’ora non ci sono più nè mezzi pubblici nè bus, o per lo meno non nella direzione in cui dovevo andare io. Così dopo aver aspettato inutilmente che passasse qualche mezzo mi sono arreso alla realtà dei fatti, e mi sono deciso a prendere un taxi, cosa che odio fare perchè mi sa molto di gringo con i soldi, ma non avevo alternative.


Il taxista era un tipo simpatico e gli ho dato chiacchiera volentieri, l’argomento di conversazione più gettonato era ovviamente la qualificazione ai mondiali dell’Ecuador, terza volta nella sua storia. Il viaggio così stava scivolando via, chiacchierando e guardando le strade buie che si susseguivano, ogni incrocio mi avvicinava a casa, una notte come tante altre.


Arrivati all’ennesimo semaforo, verde, troviamo la strada bloccata da alcune auto. Ci fermiamo e cala subito il silenzio, era evidente che fosse successo qualcosa, qui la gente quasi non si ferma quando i semafori sono rossi, figurarsi di notte se sono verdi! Inoltre spesso i taxisti mi hanno raccontato quanto sia pericolo in certe zone fermarsi di notte, anche col rosso, perchè spesso i ladri approfittano della sosta forzata per assaltarti.
Dopo qualche secondo vediamo scendere un uomo dal sedile posteriore della prima auto, la macchina davanti a noi nello stesso momento svolta per una stradina laterale e allora finalmente capiamo perchè ci siamo fermati.


In mezzo alla strada un uomo riverso in un bagno di sangue, non si muove, le braccia messe in una posizione innaturale, immobile, vicino a lui alcuni sacchi della spazzatura fatti a pezzi, e il contenuto sparso per il marciapiede e la strada, chiari segni di lotta, non bisogna essere Sherlock Holmes per capirlo.
I vestiti sporchi intrisi di sangue, la faccia una maschera rossa, dove a malapena si intravede la parvenza di un naso.
L’uomo sceso dalla macchina lo prende per la giacca, lo trascina sul marciapiede e lo lascia mezzo girato sul fianco, con la faccia rivolta verso i fari delle macchine, probabilmente per evitare che affoghi nel proprio sangue, poi raccoglie il cappellino del malcapitato e lo butta in mezzo alla spazzatura. 


Risale in macchina. 


Strada finalmente libera.


Si riparte.


Silenzio.


Pochi metri più in la, sulle scalinate di un palazzo, altri barboni si apprestano a passare la notte, difendendosi dal freddo con coperte sudicie e cartoni. Il taxista scherzando mi dice “Mira, esos son los amigos de ese man”, alludendo in modo ironico (secondo lui) al fatto che a ridurre quel povero cristo così fossero stati i suoi “colleghi” di vita.

Ma non c’è un  bel cazzo da ridere. Pochi minuti dopo sono finalmente a casa, faccio meccanicamente tutte le operazioni di fine giornata, mi spoglio, accendo il pc, musica, pigiama, bagno, uno sguardo distratto e annoiato a facebook, un’altro trepidante alla mail (no, la relatrice non m’ha ancora risposto), qualche sito d’informazione giusto per rodersi un po’ il fegato (tra l’altro il nuovo lyout di repubblica fa cagare), spengo tutto, letto.

Peccato che uno non possa scegliere invece quando spegnere il cervello, chiudere gli occhi non basta per far finire questa lunga giornata. Ripenso a quando vivevo qui, in un quartiere povero del sud (curioso che la povertà sta sempre a sud), lavorando con gli ultimi degli ultimi, quando scene come quella di questa notte erano all’ordine del giorno. Quando la gente collassata a lato della strada, specie durante il fine settimana, era ormai parte dell’arredo urbano, tanto che neanche ci facevi più caso dopo alcuni mesi.

Mi ricordo che tornai a rendermene conto un giorno, era domenica mattina, stranamente ero riuscito a svegliarmi presto, forse per andare a fare una scampagnata al nord. All’angolo della via c’era un parchetto, un pratino con della ferraglia, una volta giostrine per bambini, e un campetto da pallavolo, due pali con un filo teso come rete. Due bambini stavano giocando a pallone, avranno avuto 10 anni, la sfida consisteva nel tirarsi la palla, evitando di colpire un ostacolo che si frapponeva fra i due. Quell’ostacolo non era nient’altro che un uomo, collassato dopo una notte passata a bere birra Pilsener, che non aveva avuto la forza o la volontà di tornare fino a casa.

Nel letto ricordavo e pensavo, a quell’uomo riverso in mezzo alla strada, e a quell’altro che lo adagiava sul marciapiede. Tutt’intorno una cortina di indifferenza mista a paura, abitudine e disprezzo. Nel taxi si poteva sentire distintamente il disprezzo del taxista, e l’odore pungente della vergogna che emanava da me. Io sono rimasto in macchina, non sono sceso, non ho aiutato quell’uomo, non ho chiamato nessuno, nè polizia nè ambulanza. Lasciamo da parte per un attimo il fatto che tanto non sarebbero venuti, un barbone agonizzante non è degno delle attenzioni delle forze dell’ordine nè di qualsiasi ospedale. Ma io l’ho lasciato lì, indifferente come tutti gli altri, una volta risolto il problema e liberata la strada me ne sono andato, come tutti gli altri, mi sono adeguato, ho guardato dal finestrino dell’auto e niente di più, come spesso fa la gente, la stessa che a mia volta disprezzo e critico.


Forse in realtà non avevo molta scelta, si potrebbe dire che sarebbe stato pericoloso, addirittura inutile, i suoi “colleghi” avrebbero potuto assaltarmi, il taxista avrebbe potuto scappare e lasciarmi li, in piena notte, in balia della strada. Forse. Oppure no. Sicuramente questi pensieri non sono bastati a farmi dormire tranquillo ieri notte.

lunedì 14 ottobre 2013

Terza parte - Artissal

Ovvero l'ultimo posto dove ti immagineresti di approdare se decidi di andare in Africa ad occuparti di cooperazione.

Max ha un pickup Toyota, che secondo le mie capacità valutative in campo bellico, resisterebbe tranquillamente alle mine anticarro libanesi. La strada verso Quinhamel inizia con un lungo tratto asfaltato, diviso da uno spartitraffico – condizione non sufficiente perchè gli autisti guineensi scelgano con raziocinio il senso di marcia – e che collega Bissau con tutto ciò che c'è a nord.
Il viaggio è un pittoresco insieme di bestemmie e sorpassi lievemente azzardati, il tutto condito da clacsonate a chiunque; Max si volta verso me e Sylvia per giustificare il suo scazzo, che nella maggior parte dei casi è causato dal fatto che le auto davanti a lui procedono troppo lentamente – ma come biasimarli, del resto.

Quinhamel è un villaggio di poco più di 3 mila abitanti, e si sviluppa ai lati della strada che proviene da Bissau, in ottime condizioni. Non si ha un'idea di quanto sia grande, in quanto le strutture ad uso abitativo sono tutte molto basse, nascoste dagli edifici più grandi che sorgono a ridosso dell'asfalto, come la Chiesa Evangelica e la Chiesa Cattolica. Da questi edifici, la domenica, proviene un bordello allucinante; la messa assomiglia molto a quelle americanate in cui i pastori si esagitano durante l'omelia e i fedeli elettrizzati partecipano con pathos alle sollecitazioni del ministro di Dio evidentemente sotto effetto di metanfetamine. Anche la parte di liturgia composta esclusivamente da forme fisse ha un'intonazione diversa. Pare che la Chiesa Evangelica qui abbia molti adepti, e che sia estremamente vincolante; i fedeli sono costretti a rispettare “le richieste” delle autorità locali, come per esempio quella di prendersi cura di altri fedeli in visita, e per questo motivo molti di loro abbandonano il lavoro per dedicarsi alle mansioni assegnate loro dall'autorità religiosa locale; è pieno di Chiese qui. A Canchungo ce ne sono due: una con una bella bandiera degli United States of America che orgogliosamente ne rivendicano il finanziamento e la costruzione, e un'altra che funge anche da cooperativa rurale e sulla cui parete esterna compaiono frasi che inneggiano all'importanza del lavoro sulla Terra per ottenere il regno dei cieli.
Ieri mattina sono passato dalla chiesa – cattolica – per andare alla loja a comprare farina e a farmi prendere per il culo dal rapaz che gestisce l'attività e c'era un sacco di gente. Domenica prossima vado a messa con il mio amico togolese.

Artissal è la prima cosa che si vede entrando a Quinhamel. E' una struttura che porta avanti due progetti principali: il primo consta nella produzione di teli, panni e tessuti equi e solidali. I tessuti sono filati dai Pepel, una etnia originaria di questa zona – la regione di Biombo – ed è tradizionalmente affidata esclusivamente agli uomini. Equo e solidale significa che i lavoratori percepiscono uno stipendio equo, che l'organizzazione si cura di fornire loro l'assistenza adeguata, a partire dai pasti durante il lavoro fino all'educazione dei figli, la cui istruzione fino al 10° anno di scuola può arrivare a costare anche oltre i 10.000 franchi al mese, visto e considerato che qui la maggior parte sono scuole private. E meno male che ci sono, le scuole private.

Dal 1973 iniziano a nascere, insieme alle scuole pubbliche, le scuole di partito (il PAICG di Amilcar Cabral, storico rivoluzionario che condusse la guerra di indipendenza dal Portogallo e che fu l'ispiratore delle rivoluzioni in Angola e Mozambico) e successivamente arrivano le scuole a stampo cattolico, le più libere – forse - in tutto il Paese. Raul – il fondatore della scuola di Sao Josè - è stato professore in una scuola del PAICG, e rivendica con orgoglio la scelta di averla abbandonata per fondare una scuola che prima a Bissau, poi a Bafatà e in un altro posto del quale sinceramente non ricordo il nome, garantirà un'istruzione di qualità ai bambini e si doterà dei mezzi economici per includere anche coloro i quali non sono in grado di sostenere finanziariamente l'istruzione dei propri figli. 
Il tasso di esclusione dal sistema scolastico che in Italia chiameremmo “scuola dell'obbligo” resta comunque molto alto; molti bambini abbandonano durante l'anno, e portarli fino al 10° anno II (così chiamano la preparazione alla maturità) è molto difficile; durante il lungo e proficuo governo Cabral, idolatrato e raffigurato in ogni dove, molti Guineensi andavano a studiare a Cuba, o in altri Paesi filo sovietici; erano sostenuti dal governo e vincolati a tornare alla madre patria per condividere le competenze acquisite allo sviluppo del Paese. Oggi a Bissau c'è un'Università, che però non gode di ottima fama se non per la facoltà di Medicina. Che è a numero aperto.

Il secondo tema del quale si occupa Artissal è quello del turismo sostenibile; ci sono bungalow per i turisti, un museo con oggetti tradizionali dell'etnia Pepel, un ristorante, una piccola piscina, un sacco di verde e un'esposizione dei prodotti locali. Arrivano spesso turisti da aree limitrofe – in particolare dal Senegal, ma anche p Portogallo e Brasile – e i primi non sono proprio l'incarnazione dello stereotipo dell'africano magrolino e poco vestito che compaiono nelle newsletter di Amnesty International.
In ogni caso, il progetto si chiama 7Djorson, ed è sostenibile in quanto completamente autosufficiente dal punto di vista energetico (pannelli solari, cisterna di acqua propria e satellite per internet) con tutte le limitazioni che una scelta del genere implica in Africa.
Tutte queste iniziative sono state finanziate da progetti dell'Unione Europea e delle Nazioni Unite, che Max e Mariana – sua moglie – sono stati bravissimi ad intercettare. Oggi Artissal cammina esclusivamente sulle proprie gambe, salvo il contributo dello SVE, tra mille difficoltà. Per ora, l'impressione non è certo quella di essere fondamentali per questo posto, ma è bello pensare di potersi sentire utili, in un modo o nell'altro.

La vera anima di Artissal si chiama Mariana. E' una donna rumena, 52 anni ma sta qui da 28. Parla un portoghese raffinato, un criolo deciso, e poi rumeno, francese, inglese...
E' la prima persona ad accoglierci, ha un milione di cose da fare ma si prende molto cura di noi.
Ogni sera, prima di andare a dormire, condividerà con me e Silvia una sigaretta e un montone di ricordi; sembra che non veda l'ora di buttarli fuori. Mariana incarna perfettamente l'occhio di una persona esterna proiettata direttamente dentro questo mondo, conosce le nostre “categorie” e ci aiuta a capire quello che ci sta intorno.
La prima cosa a cui ho pensato è di volermi meritare la sua fiducia; considerando che la prima cosa che appena arrivato mi è stato chiesto di violare un pc di cui nessuno ricordava la password, la strada mi è sembrata decisamente in salita. Il fatto che io ci sia riuscito è un'altra storia.

A volta si fa fatica a credere a quello che dice, ma lo racconta così bene... I suoni del suo portoghese sono molto simili a quelli della lingua italiana, come simile è del resto anche il rumeno. Non faccio alcuna fatica a comprendere ogni sua parola, e ad immaginarmi queste situazioni intrise di storia, cultura e spiritualità. Ad un tratto, una sera, mi sono reso conto che stavo reputando plausibile il fatto che i maschi dell'etnia Balanta, di notte, si trasformino in iene (motivo per cui le iene, in questo posto dove si ammazza e si mangia tutto – scimmie comprese, come da documentazione fotografica ndr – non possono essere toccate).

Sono spiacente per i più sensibili ma andava documentato. La scimmia o sanjo è una delle carni più buone mai viste sulla terra; una scimmia costa sui 7.500 CFA, poco più di 10 euro.

Servirebbe un altro blog per raccontare tutto quello che ho sentito in queste due settimane scarse. E poi, Mariana dice di voler scrivere un libro – ne ha ben donde – non intendo certo anticipare nulla. Il prossimo post, in ogni caso, sarà un suo racconto.

La prima settimana di ambientamento a Quinhamel prosegue bene, entriamo in confidenza con l'ambiente, con i ritmi tutti particolari, costruiamo castelli su quello che può essere il nostro contributo in questa organizzazione, stimolati dai racconti coinvolgenti di Mariana sulla storia di Artissal, sui panni, sulla cooperazione guineense, sul suo lavoro al Ministero della cultura, sul violino e le tangenti partono che è una meraviglia.
In fin dei conti, a Pavia ci sono più zanzare.
Ad Artissal c'è anche Djinde, 17 enne tutto fare che vive e lavora qui. Sa fare tutto, ascolta musica reggae dal cellulare, ha i rasta e un'andatura da vero duro. E poi c'è Jo, cuoco e togolese, con il quale faccio valere il mese di studio della lingua francese e contribuisco alla confusione di idiomi presente nella mia cabeza.

La settimana seguente saremo a Cachungo per la formazione con i volontari degli altri progetti e con la coordinatrice. Ci conosciamo tutti un po' meglio, scopro che Nicola ha fatto gli scout, come anche Inma – ovunque vada, qualunque strada io prenda, c'è sempre qualcuno che ha fatto gli scout, e sono convinto che qualcosa significhi. Qualcuno inizia a risentire fisicamente, e la situazione precipita dopo la sbronza del venerdì sera, complice una chitarra che hanno cercato di appiopparci per 60.000 CFA (quasi 90 euro) e un liquore a base di cana e cocco. In tutto questo siamo riusciti ad andare due volte al mare e a definire i nostri compiti per l'avvenire. Io mi occuperò del controllo della produzione attraverso tabelle di costi, prezzi e quant'altro; Mariana è convinta che ci sia qualcosa che non va nei calcoli, e che l'attività non sia del tutto sostenibile. Mi occuperò del sito e della traduzione all'italiano e all'inglese, Sylvia allo spagnolo e al francese. Poi ci sono i corsi di inglese per i ragazzi della casa de Joventude, il punto turistico e il negozio a Bissau per la distribuzione dei prodotti di tutte le cooperative, l'ipotesi di apertura di un canale commerciale per i fricchettoni europei, e chissà quant'altro.

Questa settimana inizierà anche il corso di criolo.

Tutto con dei tempi e con una leggerezza che credevo di non sopportare, ma che invece mi lascia il tempo di metabolizzare tutto quello che succede, che non riuscirò mai a trascrivere nei post di questo blog ma di cui spero di riuscire a dipingere un immagine verosimile.
Comincio a sentirmi a casa, ad aprire orizzonti e pensare a progetti paralleli. Col freno a mano nelle vicinanze.


domenica 6 ottobre 2013

Un pensiero da casa mia




A casa mia ci sono due frigoriferi!
Se uno dice di avere due frigoriferi in casa la gente si fa dei trip mentali allucinanti sulla quantità di cibo, sulla varietà, e cosa farebbe se avesse due frigoriferi.
A casa mia i due frigoriferi sono pieni di biglietti, calamite, un’etichetta della birra san miguel, un poster di De Andrè, il menù della mezza luna e una ricevuta di ritorno di una raccomandata.
A casa mia un frigo viene usato come credenza mentre l’altro per contenere aria gelata nella triste speranza che qualcuno degli inquilini compri qualcosa da mangiare…anche i frigoriferi fanno i sogni bagnati, che poi si trasformano in condensa e qualche stronzo li deve pure sbrinare.
A casa mia uno dei due frigoriferi (quello funzionante ndr) ha una calamita tonda bianca che regge una foto in cui i sette individui che gestiscono questo forum sfoggiano ebbri e barbuti sorrisi.
Quella foto è stata scattata quasi un anno fa, Dicembre 2012.
A casa mia quella sera ci trovammo tutti e sette. Alcuni erano ancora a Pavia, altri vennero apposta.
Abbiamo mangiato e bevuto in abbondanza prendendoci bellamente per i culo, picchiandoci scherzosamente come dei macachi allo zoo.
Per me quella sera fu incredibile e difficilmente la dimenticherò visto che per la prima volta eravamo tutti e sette nello stesso posto, una cena aveva fatto convergere sette zingari in un solo posto, a casa mia.
C’è stata solo un’altra occasione in cui noi sette siamo stati tutti insieme e anche quella è stata memorabile…aprile 2013…purtroppo non ci sono foto che possano testimoniare il secondo incontro, altrimenti sarebbe appesa nel secondo frigorifero.
A casa mia hanno dormito tante persone, specialmente quelli della foto.
Quattro su sette hanno abitato qui, per gli altri tre si è sempre trovato un posto…figuriamoci!
Complice la vicinanza con la stazione, ogni volta che uno arrivava a Pavia bussava prepotentemente al citofono spacciandosi per improbabili agenti della digos, della polizia postale, finanza, equitalia…se un giorno la digos suonerà davvero avrò seri problemi a crederci.
Complice la vicinanza con la stazione, ogni volta che uno andava via da pavia passava qui le ultime ore prima della partenza.
A casa mia la porta si è aperta tante volte a ogni ora del giorno e della notte per far uscire gente carica di bagagli pronta per partire verso ogni angolo del mondo.
Ho visto Ferma partire per i Guatemala col pugno alzato. Mellone, sinonimo di eleganza e raffinatezza, ci ha congedato toccandosi scaramanticamente prima di partire per la Sierra Leone.
Da casa mia Ilardi è partito per andare a Roma e salire sul volo che lo avrebbe portato a Dubai.
Non ho visto partire Michele…ma la storia della sua uscita da casa mia l’ho sentita talmente tante volte che riesco a immaginarla perfettamente.
Karim ha sempre scelto di usare l’uscio di casa mia come trampolino di lancio per nuove avventure novaresi, Bernardo invece l’ha fatta grossa scegliendo la Guinea Bissau come destinazione.
A casa mia di quella foto sono rimasto solo io a fissare i due frigoriferi, ma non ci resterò ancora per molto… e nemmeno quella foto.
La metterò nello zaino per la Tunisia insieme a una calamita alla ricerca di nuovi frigoriferi.

sabato 5 ottobre 2013

Seconda parte - A Bissau c'è piazza Che Guevara

La strada dall'aereoporto di Bissau è illuminata. Lo è da pochi anni, ci rivela Maria. Maria è la coordinatrice spagnola dei 3 progetti, e vive qui da otto anni.
Nicola, Imma e Justyna resteranno a Bissau, dove collaboreranno con una sezione della scuola primaria e secondaria di Sao Josè, chiamata Gerico. Laura e Jorge andaranno a Cacheu, alla Cooperativa Agropecuaria Joven Quadros; io e Sylvia a Quinhamel, presso Artissal, una ONG che si occupa soprattutto di sviluppo locale attraverso il Comercio Justo.

Dopo qualche centinaio di metri in cui la strada sembrava più assestata di una qualsiasi strada provinciale pugliese, l'asfalto scompare per fare posto ad una terra battuta rossiccia impestata di crateri, simili al grand Canyon ma con più bauxite. E con più buchi. Solo il Palacio do Guvierno spicca tra i ruderi e le gru parcheggiate tutte intorno, a bordo strada.
A causa di questo dissesto idrogeologico fatto a strada, il nostro cacciatorpediniere da rua si ferma spesso per evitare che qualcuno salti fuori dalla macchina nel valico dei crateri sul terreno. Devo confessare di aver pensato spesso: “Fa’ che non sia qui (il posto dove dormiremo), ti prego fa’ che non sia qui”. La strada e’ costellata di baracche di legno davanti alle quali, con disarmante incoerenza, sono parcheggiate macchine di grossa cilindrata, SUV e cruiser della migliore estrazione giapponese e/o tedesca. Solo il giorno seguente scoprirò che quella strada di giorno si trasforma in un mercato a cielo aperto, che quelle baracche sono tiendas, e che in realtà è un posto veramente strafigo. Nel frattempo Maria risponde alle nostre domande su ciò che ci circonda, nonostante la stanchezza di tutti. Mentre pregavo tutti i dei oggetto di culto in Africa Occidentale che la nostra meta fosse un po’ più in là, taaaaaaaaac, arriviamo a destinazione. Si vede ben poco di ciò che ci circonda; la casa in muratura dove dormiremo è una struttura momentaneamente inutilizzata, appartenente alla scuola di sao Jose’, custodita dal solerte Serna – un giovanotto poco più che quattordicenne, tozzarello e con una faccia simpaticissima. Non c’è acqua corrente, ci va di culo perchè c’è la luce – a Bissau si arriva fino ad un mese di fila senza corrente elettrica – e l’ampio salone che compone il centro dell’abitazione ospita una grande quantità di acqua in bottiglia, accanto a delle grosse taniche da 25 litri utilizzate per tutti i restanti scopi per cui solitamente l’acqua viene impiegata. Peccato che, a seguito di un breve check up da parte di Maria e del conducente del quale non ricordo nella maniera più assoluta il nome (Joainho, Pipinho o affini), scopriamo che i nostri galloni sono contaminati con olio da cucina e che quindi possono essere utilizzati solo per lo scarico. Evvai.
Il posto è tenuto con molta cura, (quasi) tutti i letti sono dotati di zanzariere a baldacchino impregnate di repellente per mosquitos – che in realtà risultano non pervenuti, in tutto ciò sono le 5 e dopo un breve contatto col posto e un timido approccio con i bagni si dorme che è una meraviglia.

Il giorno seguente, Maria ci raggiungerà con i galloni puliti – che serviranno ai due ragazzi di stanza a Bissau – e ci accompagnerà a Bissau per fare un giro, per cambiare gli euro in milioni di franchi CFA e per comprare delle sim card locali. Ci svegliamo tutti prima della sveglia e Maria tarderà di un bel po’. Dopo una colazione a base di un pane davvero buonissimo con manteca e marmellata, latte in polvere e colacao proviamo a mettere il culo fuori dall’abitazione. Tutto ha un aspetto completamente diverso: case disposte in maniera piuttosto irrazionale circondano Gerico, un sacco di bambini, bambine, ragazze e ragazzi si recano alla scuola accanto, con camicie bianche e treccine sgargianti. Destiamo l’attenzione di tutti, con la nostra occidentalità che non smetterà mai di sembrarmi completamente fuori luogo in un posto del genere; buona parte dei bambini - che a scuola non ci va - si affaccia attraverso i cancelli in metallo che circondano la casa. Alcuni sono piccolissimi, camminano a malapena: ci ispezionano, e cominciano a chiamarci uno ad uno per esaminare le nostre stranezze. Hanno dei sorrisi sgagnati che trasmettono una semplicità inedita. Piedi scalzi, si arrampicano sulle ringhiere, parlano criolo e si prendono in braccio a vicenda.

Ci addentriamo nel quartiere, passiamo davanti alla scuola dalla quale ci salutano tutti, i maestri interrompono le lezioni mentre un lanciatissimo Jorge risponde a tutto ciò che ci dicono gridando sorridente “No te entendìa nada!” e agitando il braccio in segno di saluto.
Ad occhio, sembra essere una delle zone più povere di Bissau. Invece no, è la norma.
Anzi, c'è una scuola! E' molto più della norma. La scuola di Sao Josè è una delle tantissime scuole private della Guinea Bissau; qui di scuole pubbliche praticamente non ce ne sono, e tutte le famiglie pagano una retta per dare un'istruzione ai propri figli. A detta di Diego - il direttore della scuola che ci accoglie nella struttura principale dopo aver lasciato Gerico con Maria per una visita nel cuore di Bissau – il Governo supporta le attività didattiche solo a parole, senza cagare un franco. Lui sarà il primo dei tanti a raccontare, insieme al suo lavoro quotidiano e di tutta la comunità, di quanto sia una merda vivere sotto un governo illegittimo e golpista. In ogni caso, sembrano messi bene: gli aiuti internazionali arrivano, e portano computer, motociclette, materiale scolastico. E soprattutto, nessuno di questi bambini mostra la benchè minima traccia di tristezza, di male di vivere o chissà che.

Lasciamo la scuola per visitare il centro di Bissau. Il palazzo presidenziale è appena stato ristrutturato dopo i bombardamenti del 1998, durante i quali fu raso al suolo il centro culturale francofono, anch'esso appena ricostruito. Il parlamento è circondato da giardini verdissimi, lo stadio è ben curato e anche bello grosso: tutto il resto è un ammasso instabile di costruzioni, prevalentemente basse, che andrebbero buttate giù e ripensate completamente.
La piazza principale davanti al palazzo presidenziale è una mega rotonda con una statua incomprensibile al centro, qui i ragazzini vendono targetas per il telefono di tutti gli operatori telefonici. La città è piena di manifesti pubblicitari della Orange, una compagnia telefonica Vodafonofila che utilizza slogan come “ti seguiamo ovunque vai”, con foto poco credibili di bambini ben vestiti con lo zaino della scuola pronti per affrontare una vita piena di magiche avventure. Nella stessa piazza c'è la sede del Partito Africano per l'Autonomia e l'Indipendenza di Capo Verde. E' un partito molto amato qui, anche se numerosi suoi esponenti – Joao Bernardo “o ninho” Viera e Gomes, entrambi destituiti a suon di colpi di stato - non hanno brillato certo per amore del pubblico e amore per il popolo Guineano. Il primo ha aperto la guerra civile del 1998 e ospitato il traffico di armi già dagli anni '80, il secondo è un ricco industriale proprietario della GALP, la principale industria petrolifera del Paese. Il primo esiliato e poi ucciso un anno dopo la sua rielezione, il secondo attualmente destituito dall'esercito e ora in esilio in Portogallo.

Junicio, uno dei ragazzi che insieme a Maria ci accompagna in giro per Bissau, è un ragazzo di 20 anni, di etnia Balanta (la seconda etnia più diffusa nel Paese) e partirà per l'Europa a breve, con lo stesso progetto che ha portato me qui. Mi parla del PAICG come dell'unico partito che abbia fatto qualcosa per il Paese, eliminando i conflitti etnici e avviando politiche di sviluppo aperte alla comunità internazionale, che però a furia di colpi di stato indietreggia sempre di più da questo posto dimenticato da Dio ma soprattutto dagli uomini.

A Bissau c'è piazza Che Guevara. E il pub Che Guevara.


Pranziamo con arroz e frango, riso e pollo in una salsa piccante veramente buonissima. Ah, levatevi dalla testa l'idea che qui si mangia di merda perchè non è vero. Durante il pranzo sentiamo una musica fortissima a base di percussioni che sembrano suonate completamente a caso. Compare dall'alto dei 2 metri e mezzo di muro senza tetto, una testa con una maschera arancione. Un tizio sui trampoli si dimena per strada, avvicinandosi con irruenza a chiunque superi il suo proximity limit. I giocolieri fricchettoni europei questo se li mangia a colazione.

Dopo pranzo facciamo un giro di ambasciate giusto per farci vedere dagli autorevoli rappresentanti dei nostri solidi Stati europei a Bissau.
L'ambasciatore spagnolo, all'uscita dei locali climatizzati in barba al fatto che in questa città passino giorni interi senza corrente elettrica, ci congeda pronosticando la crisi totale del Paese. Este Pais va a explotar! Ma non adduce altre argomentazioni rispetto a quelle che costantemente vengono enumerate quando ciascuno parla della propria nazione.
L'ambasciata italiana qui non esiste. C'è un consolato, ma chiaramente il console non c'è. Ma poco male.

Facciamo ritorno alla scuola, per poi smistarci nelle rispettive collocazioni.
A prenderci viene Max, un uomo sulla cinquantina con un pickup che durante il viaggio verso Quinhamel scopriremo essere il presidente di Artissal, l'organizzazione non governativa presso la quale lavoreremo per i prossimi 6 mesi.

Karim, se non scrivi un cazzo di intervento giuro che ti taglio la barba nel sonno. Col machete.


giovedì 3 ottobre 2013

Prima parte - Biem vindo a Guinea Bissau

Da due giorni sono in Guinea-Bissau (se ve lo state chiedendo la risposta è no, non è un'isola dell'Oceania), e qui resterò per sei mesi.
Sono finito qua perchè tra le tante application compilate nel periodo post lauream per trovare un progetto di Cooperazione allo Sviluppo col quale poter lavorare, una è andata a buon fine.
Per la prima volta fuori dall'Europa, per la prima volta Natale fuori casa.

Sono arrivato qui il primo ottobre, insieme ad altri 6 ragazzi e ragazze (siamo 3 italiani, 3 spagnoli e una ragazza polacca) che l'Unione Europea ha deciso di spedire in questo posto di cui praticamente nessuno sa nulla. Ettecredo: è grande quanto la Lombardia e il Veneto messi insieme, ma ha lo stesso numero di abitanti di Milano; è tra i 20 Paesi con l'Indice di Sviluppo Umano più basso del mondo, e non ha abbastanza risorse naturali da stimolare l'interesse dei grandi poteri a livello internazionale tanto da riempire le colonne della stampa internazionale con qualche editoriale su quanto sia giusto farci scoppiare una guerra.

Eppure la Guinea-Bissau rispetta perfettamente la ricetta base del Club dei Paesi dell'Africa Occidentale: guerra di decolonizzazione per iniziare, libere elezioni con contorno di brogli elettorali, colpo di Stato en flambé e per concludere governo militare. Il tutto servito nell'indifferenza dei commensali delle Nazioni Unite, che raramente pagano il conto da queste parti.


La mia mente viziata dagli economicissimi viaggi Ryanair ha attivato l'Africa mode già al Terminal 1 di Milano Malpensa: per quanto mi riguarda, il mio check in poteva trovarsi in uno qualsiasi dei Paesi CFA. Il viaggio prevede uno scalo a Casablanca – dove recupereremo i 3 spagnoli, e successivamente a Praia, nelle isole di Capo Verde per uno scalo di servizio.
Fino a 10 secondi prima della partenza ero convinto che il viaggio durasse 50 minuti. Senza aver considerato fuso orario e ora legale e avendo illuso la povera Justyna che era in viaggio da molto prima e che aveva passato la notte sulle poltrone dell'aereoporto.
Sull'aereo per Casablanca – il primo nella mia vita in cui le hostess non sono bionde e con gli occhi azzurri – un signore sulla cinquantina ci prende in simpatia, convinto che fossimo diretti a Casablanca per starci. Pertanto ritiene giusto darci tutti i suoi recapiti, e certificare la sua affidabilità mostrandoci un paio di periodici sconosciuti nei quali compare la sua faccia sorridente al fianco di una donna giapponese. Non ho davvero idea del motivo per cui questo fosse finito su 'sto giornale, né tantomeno del perchè abbia deciso di dircelo. Ma tant'è. Sfogliando le pagine dell'edizione marocchina di Liberation, la sezione della politica internazionale è interamente dedicata alla crisi di governo della penisola, sotto il titolo “L'Italie va à nouveaux elections”. Tac.

All'aereoporto di Casablanca non si può fumare. E al duty free le sigarette costano comunque tanto. E'incredibile pensare come mi si fossero infrante già due tra le mie più rosee aspettative per questo viaggio. L'intraprendenza di Sylvia però ci porta ad uno dei fast food più desolati dell'areoporto, in cui un inserviente connivente ci consente di fare un paio di sboffate prima di prendere il volo della Royal Air Maroc per Bissau; lo stesso inserviente, con un climax ascendente di connivenza, si avvicinerà a noi per chiederci se la sigaretta rullata da Sylvia fosse una canna. Beh, certo, chiunque si fumerebbe una canna nell'aereoporto di un tollerante paese nordafricano. E sopratutto, pare che qui siano tutti immuni al mio 24 in Francese 1 e 2.

Il volo per Bissau è tutto una dormita. Ci svegliamo solo per mangiare, per scalare a Praia e per scendere dall'aereo; giusto in tempo per cogliere la somiglianza tra l'insegna “Aereopuerto internacional Osvaldo de Guinea-Bissau” e quella della latteria che c'era 10 anni fa vicino casa mia: sfondone bianco, lettere verdi e squadrate. Non credo di essermi ancora fatto un'idea su quali fossero le mie sensazioni al momento dell'arrivo. Certo, i militari in aereoporto non sono esattamente l'accoglienza che tiriempie il corazao. All'arrivo – 2:45 a.m. ora locale, due ore in meno rispetto al fuso italiano – c'è Maria ad accoglierci. Maria è la coordinatrice del progetto EVS in Guinea-Bissau, e sarà il punto di riferimento di tutti, pur vivendo in 3 città diverse.

Pur essendo ormai le 3 del mattino, all'uscita dell'aereoporto ci sono, insieme a los carros dell'organizzazione che ci ospiterà a Bissau per la prima notte e relativi cordialissimi membri, un sacco di ragazzini che insistono moltissimo per aiutarci con le valigie in cambio di denaro. Che tralaltro mettono alla prova i miei già vacillanti skills ispanici con un crìolo bisbigliato. Fuori è praticamente buio. L'aria ha un odore aspro, enfatizzato da livelli di umidità illegali. Intanto si realizza un'altra rosea aspettativa: un viaggio per un posto sconosciuto, su una macchina tutta scassata, sovraffollata e su una strada altrettanto scassata.