sabato 19 aprile 2014

Home sweet home




Oggi in Casa Bertone si ironizzava sul parenne casino che regna sovrano, e sul fatto che ogni inquilino lascia-dimentica sempre qualcosa di suo. L'arredamento risulta così l'insieme delle diverse generazioni di frequentatori, ufficiali ed abusivi, che si sono susseguiti nel tempo.
Ad un certo punto un sorriso furbetto illumina il viso di Kycca, di quei sorrisi che nascondono pensieri del tipo "ora sta per succedere una cosa super carina!!!", e mi invita ad andare a cercare sul suo soppalco un fantomatico pacco di robe mie stipate li da tempo immemore.
Con un po' di scetticismo, e dopo qualche acrobazia, riesco a recuperare il famoso e pesantissimo pacco e a portarlo in soggiorno (quello che praticamente è stato "camera mia" da dicembre ad oggi).

Aprire quel maledetto pacco è stato come aprire un vaso di pandora, come fare un viaggio a ritroso nel tempo, ed essere catapultato esattamente 9 mesi fa.
In 9 mesi tante cose possono succedere, puoi fare un figlio per esempio, oppure possono cambiare radicalmente la tua vita e quella di tanti altri. 9 mesi possono essere tanti o pochi, ma se tu e i tuoi più cari amici siete a cavallo tra università e lavoro, beh, 9 mesi possono fare la differenza!

In quel pacco c'erano vestiti che credevo perduti, passioni mai coltivate, oggetti mai usati, di quelli che compri sicuro che prima o poi li tirerai fuori al momento giusto, e che immancabilmente rimangono a fare la muffa dimenticati in qualche angolo della tua mente.. e poi libri, appunti, fotocopie, documenti..

Ad avvolgere tutto questo un profumo d'estate, una sensazione di quotidianeità, il sapore del caffè in bocca (rigorosamente miofino), e sono tornato per un attimo in quei cortili, in un tempo in cui le nostre strade non si erano ancora divise in modo così evidente. L'idea di ritrovarci tutti in terra Latinoamericana era solo una lontana utopia, e gli unici echi lontani venivano da Dubai..

Tante cose sono cambiate da allora, oggi sono l'unico rimasto in Italia, e guardandomi intorno ho avuto l'ennesima conferma che Casa non è un luogo fisico, gli oggetti e gli indirizzi non contano nulla.
Casa mia è fatta dalle persone, dai ricordi e dalle esperienze condivise, è un trampolino di lancio ed un porto sicuro allo stesso tempo. Nonostante sia un non-luogo è costruita su solide fondamenta, non esiste calamità naturale che possa distruggerla. Rispecchia la precarietà e la mobilità alle quali per certi versi siamo obbligati da questo sporco mondo, che ci vuole sparsi per i continenti, ma senza riuscire ad allontanarci.

Per questo nonostante tutto sono sereno, Casa mia può essere ovunque.

giovedì 17 aprile 2014

Il realismo fantastico viene a bussare

Venerdì 18 aprile 2014. Sono in cima al mirador, sul cerro di sant’Apollonia. Guardo le montagne attorno. Sono alte ma non sono minacciose, sembrano colli. Il cielo è pieno di nuvole e il sole filtra con parsimonia. È la prima volta che vengo così in alto e mi concentro sulle alture. In lontananza vedo il contorno di una montagna dal colore diverso. Immagino sia la luce che lo fa apparire differente. Poi guardo meglio, rifletto sulla direzione e deduco che possa solamente essere la zona della miniera.

Tra le voci dei miei amici filtra una frase: “Giò, è morto Marquez”. Caspita, mi coglie impreparato. Avevo seguito poco la sua degenza ma non me lo aspettavo. Che poi forse è sempre stupido stupirsi e rimanerci male in questi casi. A pensarci adesso però, sul pavimento della stanza buia e con un bicchiere di rum a fianco, assaporo l’affetto che attraverso i suoi mondi si è depositato dentro di me.

Ce l’ho stampata in mente quella montagna mangiata da un mostro che l’ha resa la miniera a cielo aperto più grande dell’America Latina. Vorrei tanto che fosse uno dei tanti mostri dei suoi libri, quelli che arrivavano sotto forma di latifondo o di quelle porcherie lì e che sconvolgono interi villaggi per poi rimanere solo un ricordo quando finisci di leggere il libro. Ho paura però che così non sia e non posso che masticare amaro pensando a tutti quelli che in questo libro ci stanno ogni giorno, come alla voce della donna che qualche ora fa mi raccontava di quanto sia difficile opporsi al mostro rischiando la vita ogni giorno, sentendosi soli.


Lui lo sapeva, perché era un compagno raro. L’amore, la denuncia e il piacere di raccontare.

lunedì 14 aprile 2014

Migrante che vai.... paese che trovi



Giovedì 10 Aprile '14


Mi trovo su un treno che viaggia da Novara a Mestre. Oggi compio 28 anni e mi prendo queste 3h abbondanti di viaggio per scrivere qualcosa per il nostro Blog.
Non voglio farvi una sintesi delle 7 settimane che ho trascorso in Svezia, siamo gi? stati in contatto ogni giorno via Whatsapp. Non vale la pena nemmeno fare un bilancio del tempo trascorso nella Sveland. Piuttosto vorrei condividere con voi qualche spunto che ci riguarda.

Come sapete ho trovato alloggio a Falun grazie a un amico molisano che conobbi gi? nel 2011, lo chiameremo C. Questi mi ha trovato il contatto per subaffittare a un prezzo pi? che amico, direi quasi regalato, presso la casa di un insegnante romano di 32 anni, che chiameremo G. C. e G. sono amici di un ingegnere siciliano di 43 anni, detto M.z che vive e lavora in Svezia da almeno 8 anni. La prima sera ci organizziamo per una pizzata a casa di C. e della sua compagna tedesca, severissima ma quasi mai in uniforme. Mi presentano M. un ex militante di Lotta Continua che ha deciso di calmarsi un po' dopo che la prima moglie svedese lo ha denunciato per maltrattamenti su un minore (mi ha spiegato che sottrasse l'I.pad alla figlia di 8 anni mentre questa faceva resistenza pi? del dovuto; Svezia, inferno - paradiso). M. ora si ? risposato con un'altra svedese che in queste settimane metter? al mondo un bambino. Lavora come maestro in una scuola materna, e durante il week-end lavora come barista in una birreria. Dice che, da gran lavoratore piemontese che ?, alla scuola materna non si stanca a sufficienza; l'anno scorso ha superato i 50, si trova in Svezia da almeno 15 anni e ancora stenta a parlare l'idioma nordico: dice che gli fa schifo.
Ma durante la cena non siamo solo italiani, ci sono anche 3 compagne svedesi e la tedesca. Tuttavia il tono di voce imperante di noi connazionali, e la necessit? di esprimerci liberamente fa s? che siamo ancora noi italiani a farla da padroni quando si tratta di fare ''serata social''.
Dopo quella pizzata ho condiviso con questi migranti italiani molti altri momenti. Un po' perché non era pi? tempo per fare festa con gli erasmus, un po' perché quando stai all'estero poche cose sono ricuoranti come una serata a sparar cazzate con qualche connazionale (anche se alla fine si parla sempre di calcio e di foka). Ma cosa c'? di meglio di una buona cena tra amici e quando il livello alcolico sale tutti in sala a spararsi un bel mix del meglio di Andrea Di Pr??
La maggior parte delle mie serate svedesi le ho trascorse con italiani, e queste si sono sempre rilevate le pi? divertenti. O per  lo meno quelle in cui si ? mangiato meglio. Anche se questa scelta mi ha precluso l'opportunit? di buttar il naso un po' fuori dal solito giro. Ma gli amici italiani che ho conosciuto in Svezia sono tutti diversi fra loro; e per et? e per estrazione sociale. Perci? mi domando cosa ci unisce? Noi italiani non siamo un popolo particolarmente patriota, forse  tendiamo semplicemente a "far comunella" come si di a Roma...
Siamo un popolo contraddittorio noi italiani: lasciamo il nostro paese perché immaginiamo un futuro migliore ma non siamo disposti a metterci in gioco fino in fondo. Viviamo, studiamo, lavoriamo all'estero per anni ma siamo sempre pronti a sfottere le abitudini dei popoli che ci ospitano; spingendoci a dire che la loro lingua suona ridicola. Quando si esce a cena con amici 2 su 3 si va per un ristorante etnico; all'estero faremmo carte false per una margherita come si deve o un espresso decente...
Un po' come amava affermare qual capoccia da un balcone della Capitale: Italiani popolo di eroi, santi, poeti e trasmigratori.

martedì 8 aprile 2014

I Sud sono una invenzione dei Nord

A una settimana dal rientro in Italia, finalmente riesco a prendere il coraggio a due mani per scrivere qualcosa su questo rientro al quale faccio un po' di fatica ad attribuire un qualsiasi odore o sapore. 
Grazie al cazzo - mi direte - è un rientro, mica una zuppa.

Lasciamo un Paese in piena campagna elettorale. “Lo sai che in Guinea Bissau abbiamo due carnevali? Durante il primo sfilano i carri e le maschere, durante il secondo candidati con auto starnazzanti. E ta ngana djintis – ingannano la gente”.
Le elezioni presidenziali e governative si dovevano svolgere a novembre, ma l'iscrizione ai registri elettorali unita al congresso di quello che fino al 94 era il partito unico hanno fatto slittare la data prima a marzo, poi ad aprile; con il sommo rammarico di perdersi questo momento vissuto da tutti come un evento eccezionale, ciascuno schierato col suo e a difenderlo in tutti i kandonga e nelle bancadas. Si presentano in 14 candidati, ma esistono solo 10 partiti. Kumba Yala, presidente nel 2000 dopo aver sconfitto il regime di Nino Viera nella guerra civile e creatore del primo grande partito dall'avvento del multipartitismo e alternativo al PAICG, il Partido de Renovação Social, questa volta sostiene un candidato diverso da quello sostenuto dal suo partito, Nuno Gomes Nabiam. Kumba scompare in circostanze poco chiare, qualche settimana fa; qualcuno dice che se lo sono portato in Nigeria, qualcun altro che è in Guinea Bissau e che verrà processato per un reato non noto. Muore di infarto qualche giorno fa. Nuno Gomes Nabiam indossa lo stesso cappellino tradizionale dell'etnia Balanta che ha sempre contraddistinto il guerrafondaio che si erge a eroe della patria, ora stroncato da un malore - stando alle fonti ufficiali.

Questa volta ci troviamo davanti alle prime elezioni in cui i candidati non hanno raggiunto la fama in quanto fautori dell'indipendenza unilaterale, dichiarata nel 1973. Questa volta c'è candidata l'élite intellettuale. Ma nei villaggi si vota per l'appartenenza etnica, o per un sacco di riso. L'elettorato dell'interno del Paese è un elettorato facile da spostare, molto attaccato ai personaggi storici che hanno segnato la rivoluzione, che continuano a vegliare su un popolo sconquassato dagli strascichi di una guerra che li ha liberati dai tuga, i portoghesi, e che adesso qualcuno ha il coraggio di rimpiangere. Un popolo pacifico che riesce inspiegabilmente ad avere ancora fiducia nei responsabili di guerre civili e colpi di Stato. 
Non scompaiono ancora le figure che hanno condizionato il nascere e gli esiti di una guerra civile inutile e dannosa, che ha lasciato delle ferite ancora aperte e che ha fermato quella che sembrava essere l'emancipazione di un Paese, almeno ai più ottimisti. Bissau ka na diskansa inda – Bissau non si è ancora ripresa.

Non scompaiono i candidati che piacciono all'esercito, la divisione è tra governativi e antigovernativi. Carlos Domingos Gomes detto Kadogo, presidente esiliato dopo essere stato deposto dal colpo di Stato guidato tra gli altri dal colonnello Antonio Indjai (già coinvolto nella guerra civile contro Viera nel '99 e supportato dai separatisti della Casamança senegalese), divide l'opinione pubblica con il suo ipotetico ritorno. Qualcuno tra gli elettori del suo partito – il PAICG – dice che ha fatto il suo tempo (senza neanche essere riuscito a governare pur avendo vinto al secondo turno), che il suo ritorno comporterebbe solo il nascere di nuovi problemi che distoglierebbero l'attenzione dei vigli governanti che amministreranno la cosa pubblica, che non ci sono garanzie per la sua sicurezza, e via giù con le scomode conseguenze di riportare in patria un folle che si è sognato di vincere le elezioni presidenziali. Il suo principale concorrente dell'epoca, Manuel Serifo Nhamadjo e attuale presidente della Repubblica, nel 2012 dopo il ballottaggio sfrutta i malcontenti di una piccola elite militare per salire al potere illegittimamente, avvalendosi dell'inazione che aleggia intorno ad un weak state come la Guinea Bissau. La comunità internazionale rimprovera, l'ECOMIB non riconosce il Governo golpista sin quando lo stesso non piega la testa davanti alla proposta, avanzata dalla comunità di Stati dell'Africa Occiedentale, di formare un Governo di transizione, con le opposizioni dentro in attesa di nuove elezioni. Il risultato è un governo di corrotti pressoché senza opposizione che ritarda il processo elettorale e rifà le strade un mese prima dell'ultimo appuntamento elettorale. 
Grandi intese e trucchetti da sindaci di provincia non sono un unicum della politica italiana.
__________________________________________________

All'aereoporto di Bissau ci tocca riaprire le valigie – il controllo è empirico in assenza di scanner – ma il solo fatto che siamo (stati) volontari ha dissuaso i solerti uomini dell'ordine dall'approfondire eccessivamente il contenuto dei nostri bagagli, pieni dei panni regalatici da Raul, dei vestiti sporchi consumati dalla stagione secca, dai pilòn, i pente, le cianfrusaglie e i regali da portare a casa.
Qualche sigaretta di nascosto con i vigliantes nello “stanzino vip”; stavolta il tabacco ha un sapore diverso rispetto a quello fumato in autunno a Malpensa in attesa dell'aereo di andata. Sarà che stavolta una stecca di Marlboro costava sei euro anziché cinquanta.

L'aereoporto di Casablanca aiuta forse a spezzare, non si capisce bene da che parte siamo del Mediterraneo a momenti, tanti turisti dopo tanto tempo, tanti bianchi, il francese, i giardini curati, i pavimenti che riflettono la luce, il fresco, la gente in giacca cravatta e soprabito. Una specie di camera iperbarica.

Il saluto. L'impressione netta di dire arrivederci per poi rivedersi davvero, e continuare da dove ci si è fermati - il che non impedisce alle lacrime di varcare la soglia che le rende visibili. Insieme a qualcuno, senza qualcun' altro, in un altro posto o negli stessi luoghi, ma questa volta poco importa.
___________________________________________________

Il viaggio per la Penisola è tutto un sonno.
L'arrivo è un dormiveglia dopo un sonno lungo e pesante, come anche i giorni successivi.
Casa Bertone è la stessa, i divani rossi, i soppalchi, i coinquilini presenti e passati che in qualche modo hanno sempre un posticino tra la polvere e le superfici originarie, e lo stesso vale per gli avventori più affezionati. Per disfare le valigie ci vogliono giorni e molte lavatrici, mentre basta molto meno per riabituarsi ai ritmi e alle abitudini di una casa di studenti. Anche Radio è la stessa, alla sera, durante l'assemblea dei soci. Lo è la gente del Coordinamento, le facce di sempre ma sempre fresche, la plenaria, la cena con un “vecchio” amico.

Le domande erano attese e temute da mesi, ma aiutano a metabolizzare. Qualcuno chiede “Cioè ma davvero te lo volevo proprio chiedere, ci ho pensato per sei mesi, caspita, ma davvero mi vuoi dire che mangiavate riso tutti i giorni?”, qualcun' altro è interessato a sapere com'è sta storia del presidente della ONG in prigione, ma sto stronzo, ma tu pensa un po' che roba.
Io me ne torno a casa con un altro anno da recuperare nella folle corsa all'adempimento degli studi nei sogni di una vita, o nella speranza di fortuna, e con un pezzetto in più a comporre un puzzle senza istruzioni né riferimenti. Con una finestra davanti, al di là della quale si aprono strade nuove e percorsi possibili.
Non ho trovato la ricetta del mondo nuovo e giusto, ma almeno parto dagli ingredienti che ne impediscono la riuscita. Non ho visto le cose funzionare bene, non ho elaborato il sistema definitivo, se penso al “mal d'Africa” di mali me ne vengono in mente tanti tra quelli che affliggono il continente più bistrattato del pianeta.

I panni colorati mi ricordano gli abiti ampi, le tavole rozze, le strade polverose, gli odori forti del mercato di Caracol, i raffazzonati mezzi di locomozione, le folle, i palazzi coloniali, le discussioni accese, la stanchezza ad ogni piè sospinto, i tratti duri, quelli più dolci dei bambini.
Sono immagini che spero non svaniscono, come il briciolo di consapevolezza in più che pesa come un macino nello zaino. Penso di aver capito molto di quello che voglio fare, ma sopratutto di quello che non voglio fare, che farò in modo che non succeda intorno a me, di dove voglio collocarmi nella mappa sconfinata che si articola nel sistema complessissimo in cui viviamo.


Gli amici lontani mandano segnali ad andamenti alterni, la conversazione digitale porta come oggetto “depression international”. Qualcuno di loro è logorato, o almeno pensa di esserlo, qualcun altro è rinvigorito. Io sono ripulito, lavato. Ancora non ho visto il mio Sud.

E nel cortile che ha ispirato i racconti di questi mesi, che ha tenuto insieme i pezzi, ancora non sono riuscito a metterci piede.