sabato 14 novembre 2015

Per colpa dei buonisti

E’ per colpa dei buonisti che dei ragazzi musulmani stanno affiancando gli operai del comune come volontari per tenere in ordine le strade.
E’ per colpa dei buonisti che a volte, quando vanno all’ospedale, a far la spesa o in posta, gli immigrati trovano qualcuno che gli spiega le regole di quei posti.
E’ per colpa dei buonisti della banda che i ragazzi hanno trovato un posto in cui poter imparare l’italiano e la nostra cultura, dopo che parti di sinistra e chiesa avevano chiuso le loro porte, coscienti che la scuola è una cosa pericolosa.
E’ per evitare di essere buonista che uno stronzo ha rifiutato una fotocopia a un ragazzo solo perché era nero.
E’ per evitare di essere buonista che il sindaco di un comune ha intimidito un privato che voleva avviare un laboratorio di carpenteria per richiedenti asilo in un immobile che, una volta restaurato, avrebbe avuto come destinazione sociale italiani in difficoltà.
E’ per evitare di essere buonista che quell’ispiratore d’odio che parla alla radio queste notizie non le dà, preferendo inventare notizie inesistenti che screditano gli immigrati.
E’ per evitare di essere buonista che c’è chi quelle persone le isola, lasciandogli come unica fonte di dialogo quel cellulare che tanto critica.
E’ per colpa della prof buonista che nelle scuole sono disponibili libri con la traduzione in altre lingue della nostra costituzione.
E’ per colpa di quel buonista coi rasta che dei musulmani hanno dato una mano a rendere agibile l’argine del fiume.
E’ per colpa di qualche squadra di calciatori buonisti che alcuni ragazzi musulmani si son potuti inserire nel campionato di Csi, noto ricettacolo di terroristi.
E’ per colpa di cooperative buoniste che il rapporto con i richiedenti asilo è indirizzato alla corresponsabilità, occasione per abituare la persona ai diritti e doveri.
E’ per colpa dei buonisti che si rendono evidenti le differenze tra chi cerca di fare mediazione culturale in modo serio e chi non ne ha neanche la volontà.
E’ per colpa dei buonisti che i soldi stanziati per i richiedenti asilo vengono spesi per cercare l’integrazione, assumendo operatori e maestre di cui sopra, finanziando tirocini, pagando mediatori, offrendo servizi di traduzione anche ai nostri ospedali e forze dell’ordine…. per colpa dei buonisti che lavorano così che si alimenta il business, che ci va sempre bene, purché non sia con fini sociali.
E’ per evitare di essere buonisti che un gruppo di terroristi ha deciso di utilizzare le ruspe e di abbattere le torri gemelle nel nome di una qualche idea.
E’ per evitare di essere buonisti, in nome dell'”adesso basta”, che un altro gruppo di terroristi ha deciso di uccidere degli innocenti a Parigi e che oggi alcune persone vogliono una risposta militare irrazionale e senza senso sapendo che alimenterà una spirale d’odio con vittime innocenti.
E’ per evitare di crescere bambini buonisti pensanti che nelle scuole si vuole far leggere la Rabbia e l’orgoglio della Fallaci invece che Lettere contro la guerra di Terzani.
Non mi reputo buonista, perché è una definizione stupida e tento di fare il mio lavoro in modo professionale. Se però per semplicità volete trovare un nome al lavorare quotidianamente per la tutela dei diritti di tutti, per la costruzione di una società multiculturale, per il costruire anziché distruggere, allora ve la do io la parola. Buoni!
Noi siamo i buoni e voi siete i cattivi. “Mi dispiace tanto”.

E’ per questo che non posso accettare che si dica che ciò che è successo a Parigi sia colpa dei buonisti. E’ responsabilità di tutti, che non abbiamo saputo dare una risposta decente a un problema complesso in un mondo che non può più risolvere i problemi con i muri.

sabato 7 novembre 2015

FEAR AND LOATHING A NYUNZU


In questo momento storico Nyunzu, situata nell’ex provincia del Katanga,  è una delle località più alla moda del Congo. Non c’è il mare, anche se sembra di stare sempre in spiaggia, e stagione delle pioggie permettendo, c’è un sole che spacca le pietre. Non ci sono grandi bellezze paesaggistiche, è una zona pianeggiante dalla vegetazione non particolarmente lussurreggiante. Il piatto tipico è il fou fou, come in molti altri paesi africani, una specie di polenta molto più densa ed elastica, fatta con farina di manioca o mais, insomma un pappone che ti riempie ma dalle proprietà nutritive praticamente nulle. Il terreno sabbioso non facilita la coltivazione, così ortaggi e frutta non sono troppo facili da reperire, eccezion fatta per i manghi che qui abbondano (purtroppo molto più piccoli rispetto a quelli a cui siamo abituati!).

Ciò che fa di questa località l’ombelico del Congo sono i conflitti etnici, numerosi e persistenti, presenti qui e nelle regioni limitrofe. Il che ha stimolato il carrozzone umanitario a dispiegare i propri potenti mezzi, per alleviare le sofferenze anche di queste popolazioni.
I vari tipi di interventi possibili si inseriscono in un continuum che va dall’urgenza allo sviluppo, il progetto al quale lavoro si posiziona all’estremo tendente all’urgenza.

Il progetto ha fatto seguito ad un sanguinoso conflitto etnico scoppiato ad Aprile  tra Pigmei e Bantu, che ha visto sostanzialmente i primi andare a caccia dei secondi, portando quest’ultimi a darsi alla macchia o a cercare riparo a Nyunzu, dove prontamente sono stati installati campi d’accoglienza per le migliaia di rifugiati.




Il detonatore del conflitto non è stato ancora ben definito, ma secondo alcuni analisti ci sono forti tensioni politiche che fomentano questo e ad altri avvenimenti sanguinosi degli ultimi anni. Il Katanga è infatti da sempre una provincia dalle forti velleità indipendentiste, e come spesso accade tali rivendicazioni sono avanzate dalla parte più ricca del paese: miniere di Coltan, Oro e di altri minerali preziosi (chiaramente con relativi appalti a multinazionali estrattiviste straniere specialmente battenti bandiera cinese) si trovano in diverse zone della provincia, molte delle quali nei dintorni di Nyunzu.

Nonostante i mesi ormai trascorsi, le tracce del conflitto sono ancora evidenti. A Nyunzu c’è un numero considerevole di famiglie “deplacé”, le si può scorgere nei grandi stabilimenti delle ex fabbriche cotoniere, ma il grosso della popolazione è ormai rientrato nei villaggi originari. 

Tuttavia, percorrendo l’asse Nyunzu-Manono, la percezione di “normalizzazione” un po’ cambia: la maggior parte delle case (capanne di paglia e fango) dopo esser state bruciate sono ora in via di ricostruzione, e in molti casi ai muri in terra resi neri dalla fuliggine viene aggiunta semplicemente una copertura in legno e paglia. 


Nella maggior parte dei villaggi è ormai rientrata l’80% della popolazione (stima OCHA), ma percorrendo l’asse ci si imbatte (troppo) spesso in siti completamente abbandonati, vuoti, bruciati. Tra le carcasse nere delle case, si trovano sparsi oggetti di vita quotidiana, evidentemente sacrificabili nel momento della fuga. L’erba alta nasconde già i sentieri tracciati dall’uomo, e la natura cerca di riprendere il possesso di case e scuole ormai abbandonate. Lo stacco è abbacinante, nel giro di pochi km si può passare da siti sotto i riflettori del mondo umanitario, con numerose ONG intente ad offrire i propri servizi in ambito sanitario, nutrizionale, educativo, anche attraverso la costruzione di case, scuole e ospedali. A villaggi spettrali, cancellati dalle cartine, se mai vi sono stati, a causa della follia dell’uomo, e non annoverabili tra i “beneficiari” degli aiuti umanitari a causa dell’assenza di popolazione.

In alcuni casi gli abitanti non sono tornati al villaggio semplicemente perchè quelle persone non esistono più, è il caso per esempio del piccolo agglomerato di Tende. 
Sulla rotta che doveva portarci verso un sito indicatoci da OCHA per l’intervento, dopo aver deviato per alcuni km dall’asse principale la strada finiva in un villaggio, distante ancora diversi km dalla nostra destinazione. Preso il capo villaggio come guida siamo allora ripartiti, di fatto avanzando tra le sterpaglie e seguendo un sentiero appena appena praticabile a piedi (cosa che ci è successo più volte durante le prime settimane di lavoro). Dopo poche centinaia di metri improvvisamente la vegetazione si è aperta, intorno a noi colline brulle: erba verdissima e scheletri di alberi, neri e spettrali, costituivano la trama predominante del paesaggio per diversi ettari, in tutte le direzioni. Qua e la alcune foglioline verdi ci testimoniavano che la vita, nonostante tutto, continua. Giusto il tempo di chiedersi quale potesse essere stata la causa del disastro, che scorgiamo in cima alla collina una decine di case, o meglio quello che ne restava: fango secco annerito dal fumo. 
La nostra guida allora ci spiegò che qui vivevano alcune famiglie Bantù, quasi tutte sorprese nel sonno e bruciate vive dalla follia omicida dell’uomo, insieme a ettari di vegetazione circostante. Con dovizia di particolari ci raccontò da dove arrivarono gli assalitori, e in quali capanne viveva ogni famiglia. Dopodiché fu il silenzio.


Di tutto quello che ho potuto vedere fin’ora questa è sicuramente l’immagine che più mi rimarra impressa nella memoria, una cartolina dal Congo per così dire. 

Una distesa infinita di paletti neri, in un mare di verde abbagliante, e la quite opprimente, tutt’intorno un silenzio pesante, pressante, innaturale, come se quel luogo fosse in sospeso tra passato e presente, e dovesse fungere da monumento alla memoria collettiva. In un momento, è stato come se la consapevolezza della dimensione del disastro mi fosse improvvisamente diventata chiara,cristallina, come un velo che cadendo ti lascia finalmente vedere la realtà nuda e cruda.


Un cimitero sconfinato dalle lapidi nere e scarne.



lunedì 7 settembre 2015





Sono sicuro che la ricordate bene quell’ultima notte di due anni e mezzo fa alla Festa di Laurea in cui eravamo tutti insieme.

Ciccio non sapeva che qualche mese dopo sarebbe partito per il nord Africa, Karim aveva appena discusso la tesi dopo una pre-serata peripatetica (senza prostitute), Michele era ancora inebriato da Quito, Giovanni fresco di Sierra Leone usciva ancora con la Conte, Bernardo era ancora lider maximo della Pavia leggendaria che fu nostra, Ferma ancora non era diventato il nostro DJ camuno e leggeva poesie, io, in preda alle mie paturnie sentimentali, facevo le valigie per l’Arabia Felix (?).

Quella notte cercammo di scacciare la tristezza con qualche bicchiere di troppo sapendo che sarebbe stato difficile riunire tutto il gruppo di nuovo. Ed ancora non è successo. Un po’ impauriti che ci saremmo naturalmente persi. Sapevamo che il nostro cammino non sarebbe stato lineare. Tanti kilometri, aerei e città, cantieri, selve e giungle di cemento si sarebbero susseguite senza una logica apparente. Non sapevamo se saremmo stati ancora tutti qua, uniti, seppur sparsi in 4 continenti. Ma siamo ancora quel Cortile che eravamo. E senza saperlo siamo una storia degna di essere raccontanta.

Stanotte ho sognato un Natale tutti insieme (chissà quando succederà) e noi che dopo qualche anno dai saluti di quella notte epica di metà aprile ci raccontavamo di viaggi ed avventure, sorprese, scherzi, delusioni, di cadute e ripartenze. Delle nostre vite. Ci raccontavamo e ci rendevamo conto che involontariamente eravamo immersi in una grande storia. Nella Storia. Nello spirito e negli eventi del nostro tempo. Era una bella scoperta perché non sempre era stato così.

Ci eravamo spesso visti come quelli delle Scienze sociali deboli. Insomma, quelli preparati ma che si sarebbero arrabattati per trovare un posto precario e momentaneo in questo mondo che delle nostre competenze se ne sbatteva. Positivi e goliardici, ma sempre in balia di un futuro nebbioso. Nelle ipercaloriche cene a Pavia, dopo vino, supercazzole e dibattiti accesi, si parlava di tanti sogni ma raramente di certezze. L’ospitalità di casa Bertone era una delle poche. Noi della generazione Y che non avrà mai una pensione e che si trovava ad entrare nel grigio mercato del lavoro mentre il sogno Europeo si sgretolava come il castello di carte subprime che avevano costruito gli Ammmericani.

Ma nel sogno c’era un filo conduttore. Le nostre storie erano colorate e nel loro caos avevano un senso ed un valore. Nel sogno ogni volta che qualcuno parlava lo scenario si modificava e cambiava veloce come i tempi che corrono. Racconto dopo racconto, realizzavamo che siamo attori di un’Epoca. Con Ciccio, eravamo nel mezzo del calderone nordafricano che ribolle di energie che intimoriscono le nostre genti. Le nostre genti che hanno diritto alla paura dell’ignoto ma non hanno diritto all’ignoranza. Con me e Gioby, assistevamo alla crescita ed al fiorire contraddittorio di nuove metropoli, Dubai e Lima, in Paesi che fino a pochi anni fa erano semplicemente bollati come Terzo mondo ed ora invece sono invece Paesi Emergenti. Con Michele, scoprivamo che nel cuore del continente africano esistono angoli di inatteso sviluppo dove 21 anni fa l’orrore genocidario imperversava in ogni angolo di Kigali. Con Bernardo ci addentravamo nei meandri dei meccanismi socio economici di quell’Africa Lusitanofona che per ultima si è affrancata dal giogo coloniale. Con Karim, rivivevamo l’intramontabile voglia di ritorno e certezze, protesi verso il mondo globalizzato ma con un desiderio grande di quel tepore (quasi tedioso ma irrinunciabile) che solo le nostre province ci possono dare. E mi sentivo molto vicino al nostro vecchio Karim. Giovanni Ferma, dalle Alpi alle Ande, eroe dei due mondi ci catapultava in un duplice scenario: una vita da vocalist ed una vita da operatore sociale che sta partecipando ad un luminoso progetto di accoglienzza che deve essere urlato alle nostre genti teorririzzate dall’invasione dei profughi.

Era un viaggio potente, inatteso, ritmato e mai banale seppur con intermezzi di routine e scene di semplice vita quotidiana .

Il sogno, tra scenari mozzafiato e multicolori, terminava con una scena semplice. Dopo tanto vagare tra le nostre avventure arrivava quel momento che desidero tanto si realizzi presto.

Vi facevo conoscere mia moglie Anastasia.

Facevamo un brindisi tutti insieme e partivamo per una zingarata tutti e 7.

Insomma, cari Amici miei, i nostri percorsi hanno un valore che deve essere narrato . Piccoli e grandi ed inconsapevolmente tutti legati dal filo degli eventi storici che ci circondano.

Noi siamo un piccolo spaccato dei notri tempi e voglio che ricominciamo a raccontarlo.

Un post alla volta.

Il Cortile deve ritornare a raccontare e raccontarsi.

In attesa di rivivere una serata come quella dell’Aprile 2013.

Ossequi, Ossecui, Ossecqui,


Il Conte



giovedì 27 agosto 2015

The Gate: una storia al di là di ogni imbarco



Ancora deve sorgere il sole e quella notte non hai dormito quasi nulla: troppi pensieri per la testa; hai fatto tardi per sistemare le ultime cose, ultimare la preparazione del bagaglio, salutare chi ancora non se n'è andato. L'aria fuori dalle porte dell'aeroporto è fresca e umida, la temperatura minima a quell'ora e il sonno ti danno uno strano senso di nausea; non hai voglia nemmeno di un caffè.
Gli ultimi saluti, gli abbracci di chi ha voluto accompagnarti fino al banco check-in, poi sei solo. All'improvviso le spalle si fanno leggere, alzi il naso sotto a quel tabellone appeso in mezzo alla sala cercando una località lontana il cui nome è riportato sulla tua carta d'imbarco che stringi nella mano destra: il volo è in orario. Ora puoi recarti al controllo sicurezza, non si torna più indietro. Ti senti minuscolo sotto a quel tabellone che vomita informazioni su orari e destinazioni che ti senti di conoscere da sempre: Milano, Abu Dhabi, Roma, Dubai, Quito, Lomé, Maputo, Lima, Madrid, Tunisi, Kinshasa, Lisbona, Stoccolma, Catania, Freetown...

Passato il check-in ritorni, almeno per ancora un po', alla realtà che hai lasciato fuori dalle porte di vetro che ti separano dal mondo che sta fuori; quel mondo che tra poco lascerai per un bel po'. Allora riprendi in mano il telefono, leggi gli ultimi aggiornamenti su Facebook, mandi un saluto per Whatsapp e perché no l'ultimo ''selfettone'' di rito, leggi qualche notizia online e cerchi di distrarti e magari una telefonata inaspettata che ti farà sorridere a lungo. Intorno a te una piccola e insignificante porzione di abitanti del globo si sta spostando per le ragioni più svariate. Ma poi che ne sai?! Come puoi giudicare quella massa di italiani medi che secondo te si sta recando al mare in ferie? Ma la carta d'imbarco che stringi tra le mani riporta il nome di una destinazione che di vacanza e mare dice ben poco: per te lavoro gli altri che se  ne vadano a Sharm o  nella meno esotica Lamezia T.
Ma almeno ti ricordi l'ultima volta che a salire a bordo di un aereo non eri solo?

A me gli aeroporti sono sempre piaciuti. Da sempre esercitano su di me un leggero fascino di cui forse non vale la pena indagare. Da bambino non mi sarebbe dispiaciuto diventare un giorno un assistente di volo... Per me gli aeroporti sono una sorta di ''non-luogo''. In aeroporto la tua nazionalità conta relativamente, sono una sorta di zona franca, una piccola e moderna Babele dove le più disparate genti si incrociano per attimi che durano quanto il tempo di uno scalo.
E io li fisso tutti. Scruto e osservo tutti coloro che mi passano davanti, cerco di indovinare nazionalità, provenienza e destinazione; cerco di immaginarmi cosa c'è oltre al loro viaggio, quel viaggio che in parte stiamo condividendo in quanto io ancora una volta viaggio solo. Ma è tutta una casualità.

Ormai manca una manciata  di minuti all'imbarco: è tempo di ritirare le cuffie, il libro che stai leggendo, estrai il passaporto e ti metti in fila con pazienza e disciplina. Eh sì...perché tu hai viaggiato, hai studiato all'estero: quelli chiassosi e indisciplinati sono sempre gli altri.
Dietro a ogni gate c'è una storia. Siamo frammenti di umanità che circolano alla ricerca del proprio posto nel mondo, quel posto che crediamo di meritare.
Ed era così esattamente un anno fa quando, lasciandomi tutto alle spalle, varcavo un gate per andare dall'altra parte del globo. E già sapevo in cuore mio che ad attendermi, oltre alle porte di quel gate, c'era una parte del mio Cortile.





domenica 22 febbraio 2015

- Perú: Progreso Para Todos -

- Perú: Progreso Para Todos -


Lima, megalopoli di 8 milioni di abitanti con l'agglomerato urbano ne comprende complessivamente 11. 
Undici milioni di persone che ogni giorno si svegliano presto per affrontare un traffico selvaggio e senza senso. La stragrande maggioranza della popolazione non possiede un'auto; ció nonostante le statistiche riportano che ogni anno il numero dell enuove auto immatricolate aumenta del 30%. Ma il numero di patenti emesse rimane pressoché invariato.
Un continuo boom economico e sociale che avanza sulla cittá come un lento tsunami. Da alcuni quartieri semi centrali verso le municipalitá piú periferiche si espande inesorabilmente l'inarrestabile tsunami del consumismo. Lunghe vie di fast food che propongono per lo piú pollo e patatine fritte, nuovi centri commerciali che sorgono a ridosso di case nemmeno ultimate, ovunque odore di fritto misto al pesante smog.
Ma la capitale del Perú é stata, almeno secondo i limeños, la cittá dei giardini fino a pochi decenni fa.
Se domandate a chiunque vi racconteranno che i decenni del terrorismo di Sendero Luminoso furono caratterizzati da un massiccio spostamento di famiglie dalla regione andina e amazzonica verso la capitale. Il controllo dello stato non é mai stato effettivo e nemmeno incisivo, cosí la capitale e ele altre cittá della costa rappresentavano poli attrattivi per chi scappava al terrorismo rosso.
Cosí in meno di 3 decenni la cittá ha visto moltiplicarsi i propri abitanti in maniera spaventosa: negli anni '60 la popolazione raddoppió arrivando a oltre 2 milioni e mezzo. Fino a metá degli anni '50 i limeños erano meno di un milione. L'inettitudine della classe dirigente ha fatto il resto.
Il limeño tipo quando parla con orgoglio della storia nazionale parla di Perú, con ''p'' de patria. Altrimenti fuori da Lima é ''provincia''.
A me la societá limeña ricorda molto l'Italietta mediocre e spendacciona degli anni di Craxi. 

Ma ció che colpisce piú  a Lima come nel resto delle cittá del Sud America sono gli abissali contrasti socio-economici. L'immagine urbana tipica é una donna andina che chiede l'elemosina a lato di un grattacielo sede di diverse multinazionali.
Per me il contrasto piú assordante é l'immagine della propaganda commerciale che promuove un presunto modello di benessere raggiungibile da sempre piú persone. Nei quartieri dalle antiche case basse a uno o due piani sorgonono come funghi palazzoni bianchi da 11- 15 piani. I prezzi degli immobili nuovi triplicano entro i primi 5 anni e le vendite degli appartamenti nuovi si esauriscono prima del completamento dello stesso edifcio.
Il ceto medio a Lima rappresentato dai colletti bianchi é in forte espansione. Un esercito di impiegati che non possiede ancora ma sa che ha il diritto di consumare. Per cui dopo lavoro ci si ferma nel fastfood lungo la strada che ti propone junk food a prezzi non proprio popolari. Il ceto medio inizia a far la spesa ai supermercati nuovi dove anche se non ci si puó riempire il carrello bisogna presenziareogni fine settimana. Fare la spesa in un supermercato peruviano costa praticamente come in un discount europeo. Parecchio se si considera lo stipendio medio. Poi, dato che fai la spesa al supermercato perché fa figo ma non hai l'auto per trasportare la spesa a casa, al tuo servizio il supermercato ti fornisce un baldo giobane mestizo che é ben contento di portarti il carrello fino a casa. Tu, risparmioso padre di famiglia sfili per l'avenida con tua moglie tirata a lucido e i due bimbi al seguito.

Il nuovo paradigma della societá limeña é consumo ergo sum. Tutto si compra per essere consumato in maniera massiva. Io personalmente non riesco a immaginare come puó vivere una popolazione a questi ritmi: 11 milioni di abitanti che ogni giorno esige un piatto a base di carne o di pollo, consuma cibo e bevande confezionate senza pensare nemmeno alla possibilitá di reciclare la confezione di plastica. Plastica ovunque e con vita breve: un sacchetto ti serve per la spesa poi lo butti; una bottigliati serve per dissetarti poi la getti insieme a qualsiasi sorta di rifiuto, magari per strada.
L'ignoranza e l'arroganza di non comprendere che il ricliclo dei rifiuti urbani potrebbe dare reddito piú di quanto si estrae da qualche miniera nella Sierra Andina. 
Mediocritá, arroganza, pigrizia, omologazione al consumo. Aspirazione ad aquistare un suv per circolare in una cittá in cui il traffico é tanto che a certe ore arriveresti a destinazione prima a piedi.
Ogni volta che ti sposti a piedi é un'ulcera perforante. Ti tagliano la strada sulle strisce, fanno slalom tra i pedoni. Se ci si mette in prossimitá di un incrocio non si vedrá nemmeno un'auto con il faro dello stop accesso: nessuno frena, tutti passano in un continuo flusso caotico.
Allora diventi nervoso ogni volta. Allora attraversi con i pugni chiusi pronti a batterli sul cofano dell'auto che ti taglia la strada. E si si fermano per reagire? Magari mi levo il prurito dalle mani.

Altro contrasto al limite della decenza é rappresentato dalla televisione nazionale e dai contenuti dei suoi programmi. Il programma tipo é un talk show dove un branco di bianchi palestrati e fancazzisti passa ore a dibattere sull'ultima relazione di un personaggio famoso. 
Talk show i cui partecipanti hanno un quoziente intellettivo che a Marco Bettello andrebbe l'oscar insieme a Luca Giurato. ( e andatevi a cercare su Youtube chi é M. Betello) ! La conduzione sempre in mano a una gallina da brodo che ha reso benestante qualche chirugo estetico della capitale. In confronto la Venier e Alda D'Eusanio sono ragazze acqua e sapone.
Meno del 40% della popolazione limeña é bianca, eppure in tv non vedi un indigeno. Il paradigma estetico é il tipico gringo, pelle chiara e tratti europei. Eppure la stragarande maggioranza della popolazione é palesemente di discendenza amerinda. 
Mi chiedo perché non sia mai scoppiato un conflitto di carattere etnico.
Ma dalla radio e dalla tv uno spot del governo rassicura con una bombardante propaganda che promette in continuazone: Perú, progreso para todos.




















giovedì 20 novembre 2014

Glicine, gerani e zingarate

Forse ci eravamo abituati che volevamo troppo da queste righe. E qualche volta quando il cuore è pesante e le rive italiane ci mancano ci avrebbe fatto piacere scrivere, ma abbiamo una sorta di ansia da prestazione… come se non ce ne fosse già abbastanza nell’affrontare questa vita.

Però adesso non mi interessa se scriverò bene o male. Ho solo bisogno di sedermi a un tavolino di legno del cortile e scambiare due parole con voi, seduti su sedie di vimini sfilacciato. Un fiasco di vino e sette caffe, uno lungo.

domenica 7 settembre 2014

In punta di piedi

Per combinare qualcosa nella vita, bisogna svegliarsi presto la mattina; ma non è che se uno la mattina si sveglia sempre presto deve combinare per forza qualcosa.
E' capitato in questa magica estate pavese che alle 8:30 del mattino uscissi di casa per la seconda volta nella giornata, diretto all'autobus che (fortunatamente non proprio) tutte le mattine mi ha portato a Milano Famagosta, e senza che questo rappresenti ineluttabilmente un'ipoteca su un futuro affermato e brillante.
Ho passato tutta l'estate a lavorare, tra Pavia e Milano, salvo fugaci (e purtroppo insufficienti) raid per cercare di sopperire alle difficoltà causate dall'impervia geografia dei miei affetti, in alcuni casi irraggiungibili. Il viaggio è diventata un po' una costante da qualche tempo, sopratutto da quando si è reso necessario per colmare un grosso vuoto la cui dimensione corrisponde più o meno alla distanza tra questa penisola e quella iberica, e forse qualcosa in più.

Nel frattempo, a Gaza i palestinesi resistevano ingabbiati come topi all'offensiva israeliana; in Ucraina il conflitto tra filorussi e fascisti mascherati da europeisti faceva tremare le sabbiose fondamenta dell'Europa politica; l'autoproclamatosi Califfato tra Iraq e Siria miete vittime, spaventa e ci ricorda gli errori fatali commessi dall'occidentalismo sfrenato; l'ebola miete vittime tra le superstizioni e i timori di chi guarda l'Africa solo quando rappresenta un pericolo per il proprio giardino immacolato. E mentre gli aerei cadono come ciliege d'estate, mi preparo a far scattare le molle tenute schiacciate per troppi anni sotto il peso del fieri di una vita che spesso sembrava di non poter controllare, ma sempre al servizio di una causa, una sola.
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Pavia ad agosto non mi ha mai entusiasmato, per usare un eufemismo; eppure in questi ormai cinque anni in cui la ridente provincia lombarda è stata il mio domicilio (più o meno) fisso, non c'è stato anno che non mi abbia visto convivere almeno per un po' con le sempre infallibili zanzare padane e con i pochi pavesi superstiti.
Qualche settimana fa i cortigiani di questo blog, non tutti purtroppo, si sono ritrovati sotto il tetto di casa Bertone restituendole l'atmosfera di una volta. In fondo le pareti non fanno una casa in quanto tali, di per sé questi sono luoghi senza spirito, a discapito degli inutili tentativi di far sì che si verifichi il contrario. Di contro, non è difficile ricreare le situazioni familiari, come se fossero state lì pronte a saltare fuori da un divano rosso o dal pensiero di una zingarata, da una discussione sul Medio Oriente o sulla giustizia universale, tutto chiaramente contornato da riproduzioni filmografiche cult e litanie pseudocomiche.
Tutto mi ricorda che da questa città, in realtà, sono andato via un anno fa.
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Insomma, tutto 'sto casino di maldestri tentativi di apparire laconico e nostalgico, sensibile e passionale per dire che smollerò gli ormeggi.
Vado a Lisbona, per approssimativamente due anni, per un Master in Sviluppo e Cooperazione Internazionale. Domani.
Parte di 5 anni rinchiusi in 6 colli affidati
forse avventatamente a Transitalia SpA
E' piuttosto difficile elaborare il modo in cui sto vivendo questa scelta; infatti penso che non lo scriverò e vi risparmierò questa supercazzola. Oscillare dall'entusiasmo puro al peso delle incognite è una spinta non indifferente (ecco, alla fine l'ho fatto) a far sì che tutto vada nel verso giusto, come se fosse possibile controllare questo genere di cose.

Qualche post fa, dicevo che la Guinea Bissau – tra le innumerevoli cose – ha messo una bella pietra sopra a quello che sicuramente nella mia vita non voglio fare. Il che rappresenta senz'altro una scrematura rispetto alle inclinazioni maturate in questi intensissimi anni; e proprio perchè sono passati in un baleno, sono anche stati determinanti nel rendermi quello che sono e nel guidarmi lungo le asperità che mai hanno fatto senitre la propria mancanza. Quello che è arrivato a Pavia non è lo stesso che se ne va, dai chili in più alla voglia di riversare energie e rabbia in sfoghi (quasi) sempre proficui, almeno nelle intenzioni.

Gli anni del Coordinamento sono stati indescrivibili. I compagni, le compagne, le lotte, i compromessi, la fatica, i manifesti, le gambe come molle, la direzione sempre uguale, i compromessi, quelli piuddesinistradete, le pulsioni dei movimenti e la costanza della rappresentanza sono stati di gran lunga l'esperienza più significativa della mia vita; è inevitabile che tutto questo crei la nostalgia più grande nel lasciare questo posto.
Ma è stato proprio questo a orientare le mie scelte fino a questo momento, compresa questa, insieme a tutti poli gravitazionali sparsi sul globo terracqueo; alcuni di essi esercitano una forza incredibile, e assecondarli diventa irrinunciabile, qualsiasi cosa questo comporti.

Mi sto riposizionando nel complesso reticolato delle idee e degli affetti, assecondando le ragioni del cuore, che sono mille e nessuna, a volte travestite di una razionalità che non gli appartiene.
Dopo aver salutato - un po' a random -  i luoghi e le persone che mi hanno accolto in questi anni, da lunedì, dall'altra parte dell'oceano ci sarà di nuovo un altro continente lontano.

Me ne sto andando da qui così come sono arrivato, in punta di piedi; ma seguendo la stessa direzione che mi ha guidato lungo questi bellissimi anni, che hanno caricato delle molle pronte a scattare, proprio come quelle del "dado che cammina". Senza cambiare mai rotta, senza mai rompere la fedeltà verso sé stessi e verso il motivo che crediamo ci abbia messo al mondo, a partire dal momento in cui abbiamo deciso di farne parte. 

Non un passo indietro.
Mai una resistenza rispetto a quello che crediamo sia giusto.

[...] le ragioni del cuore sono le più importanti, bisogna sempre seguire le ragioni del cuore, questo i dieci comandamenti non lo dicono, ma glielo dico io, comunque bisogna stare con gli occhi aperti, nonostante tutto, cuore, sì, sono d'accordo, ma anche occhi bene aperti [...].
--Antonio Tabucchi
dal libro "Sostiene Pereira. Una testimonianza" di Antonio Tabucchi