Mentre in Italia il movimento dei
forchettoni impazza nelle grandi e piccole città riempiendo le
strade di una pericolosamente eterogenea massa di gente, un po' di
padroncini piccolo-borghesi, un po' di gente inginocchiata dalla
crisi contro la quale le proteste non sono iniziate il 9 dicembre –
con tanto di blocchi degli autotrasporatori che vagamente ricordano
il golpe cileno che l'11 settembre del 1973 portò alla morte di
Allende e all'inizio della dittatura di Pinochet - insieme a manfrine
tipo “non siamo né di destra né di sinistra” che puzzano un po'
di rosso-bruno con tanto di applausi a Di Stefano ai comizi, bene,
nel frattempo a Bissau noi facciamo
LO SCIOPERO GENERALE
Oddio, lo fanno loro e tutti
quelli che sono costretti ad abbandonare le proprie attività a causa
dello sciopero, in un posto in cui la logistica e gli equilibri
sociali, insieme agli incastri che compongono un sistema complesso
come una capitale africana si reggono su filo di una ragnatela.
Scopro che c'è lo sciopero
la mattina stessa in cui lo sciopero inizia, ossia lunedì. Ero
rimasto a Bissau dopo la deludente celebrazione della giornata dei
diritti dell'Uomo di sabato e domenica, la cui unica nota di colore è
costituita dalle mirabolanti performance di danze africane al centro
culturale francese con un altissimo tasso di salti mortali e capriole
per aria, tutto condito da un senso del ritmo che sembra essere
presente un po' in chiunque, qui. Il lunedì dunque mi tocca andare
ad aprire Cabaz di Terra – il negozio dei prodotti delle ONG che
fanno riferimento al Comercio Justo - dopo un sabato sera a suon di
capirinhas (costano 500 CFA, meno di un euro) e una domenica per
ripigliarsi a mezzo mandioca e patate dolci, tutto rigorosamente
fritto (25 CFA l'una, meno di una goleador) e comprato tra le strade
terrose del mercato di Caracol.
Fortuna volle che l'unico africano
presente nella casa in cui ero ospitato fosse informato della
sollevazione generale, così da consigliarmi la mattina stessa di
spicciarmi e cominciare a camminare, chè salvo botte di culo mi
attendeva un'ora buona di cammino tra mercati e traffico.
Esco di casa in tempo;
conosco la strada, mi avvio cercando con lo sguardo tassisti crumiri
o macchine mezze vuote a cui chiedere un passaggio. Il tentativo dura
pochi minuti, mi rassegno presto e disinnesco il passo da terrone,
unico modo per arrivare in tempo a destinazione. Scopro di orientarmi piuttosto
bene, grazie ai ripetuti rally per le strade della capitale e ai giri
che il lavoro ci obbliga a fare in questa città il cui assetto
urbano non dev'essere stato guidato da un piano regolatore scritto da
grandi luminari della materia. Attraverso Jerico, raggiungo i lati
esterni del mercato di Caracol prima e di Bandim poi. Ci sono poche
auto per strada, e molta meno gente del solito. L'ultima strada prima
di incontrare l'asfalto è Mindara, famosa per l'alto tasso di
assalti e per la puzza di pesce fumato mista a immondizie di sorta.
Meticolosamente ammassate al centro della strada tipo spartitraffico.
Quando cerco il tizio che di solito mi vende le stecche di Marlboro a
4300 CFA (una stecca costa quanto un pacchetto e mezzo in Italia), mi
rendo conto che il suo contentor è chiuso, come il 90% dei grandi
contenitori portuali all'interno dei quali vengono ricavate le lojas
nella strada-mercato di Mindara.
Raggiunto finalmente il
tratto asfaltato che porta a Bissau Vellho, il quartiere storico dove
si trova Cabaz, davanti a me appare qualcosa che assomiglia molto a
Pavia a ferragosto. Le strade che solitamente strabordano di auto
sono quasi vuote, e i pochi passanti si sbracciano per essere
caricati dai pick up di passaggio, quasi sempre senza ottenere nulla.
Mi rendo conto che, al netto dei taxi e dei toka toka – che oggi
non ci sono a causa dello sciopero – le auto private che girano per
la città sono pochissime.
Il sole reso diafano dalle sabbie del
Sahel alzate dai venti Sahariani mi accompagna fino a destinazione;
per strada non avverto nessuna elettricità, non si incontrano
manifestanti né grandi dispiegamenti di forze dell'ordine; la solita
polizia che veglia sulla città dalle sedie di plastica piazzate
nelle rotonde e le solite camionette dell'Ecowas piene di militari
dell'esercito sovranazionale, in maggioranza nigeriani e armati fino
ai denti. Di manifestazioni di piazza neanche l'ombra, arrivato al
negozio accendo la radio e cerco di capirci qualcosina in più.
Lo sciopero è stato congiuntamente
convocato dalla UNTG (Union geral dos trabalhadores da Guiné) e
dalla CGSIGB (confederação geral dos sindicatos independentes da
Guiné-Bissau); ho cercato notizie sulla storia di questi due
sindacati, ma l'unica cosa che ho scoperto è che la UNTG fa parte
dell'ultima versione dell'internazionale socialista, la ITUC
(International trade union confederation). Sono entrambi sindacati
confederali, rappresentano tutte le categorie di lavoratori; di certo
esistono anche piccoli sindacati di piccole categorie, di cui è
impossibile trovare le sigle.
L'impostazione è molto simile a quella
di tutti i Paesi che nella storia hanno avuto un partito di socialista forte, come lo è stato il PAICG di Cabral; in realtà l'unica
categoria con la quale questo sindacato si relaziona per via diretta
è quella dei lavoratori pubblici, dato che tutto il resto funziona
un po' come capita. L'esempio più clamorosamente di questo funzionamento generale guidato apparentemente dal fato è quello dei trasporti,
composto principalmente da taxi, Toka Toka e Kandonga.
I taxi sono
tutti uguali, Mercedes tipico anni '80 alla Starsky&Hutch,
carrozzeria azzura e tetto bianco. Se vuoi fare il tassista te ne compri
uno, e se non ti va di guidare tutto il giorno lo affidi a qualcuno
che lavora per te (i guineensi si affacciano a questa pratica come
gli europei si affacciano alle start-up, per intenderci); i prezzi
sono calcolati sulla base del numero dei quartieri che vengono
attraversati per raggiungere la destinazione, oltre che sulla
gradazione di bianco che ha la tua pelle. Sui taxi giuro che ci faccio un reportage in pieno stile repubblica.it.
Un toka toka |
Il Toka Toka è
l'equivalente degli autobus urbani, sono piccoli furgoncini giallo-blu abbelliti dalle più disparate suppellettili e aereografie
(gettonatissima quella del Che) con panche al centro e sui fianchi; ci entra una quantità di gente e di merci impressionante. Il viaggio
costa 100 CFA sempre, ovunque tu vada; esistono delle linee
approssimative rese note all'utenza scrivendone direttamente il nome
sulla fiancata del mezzo. Gli autisti toka toka non sono famosi per
la loro capacità di calcolare gli spazi di movimento né per la loro
delicatezza. Il Kandonga, infine, è il trasporto extraurbano.
Inizialmente gestiti dal ministero dei trasporti, attualmente
sommersi dalla gestione privata dei singoli; il che non vuol dire che lo
Stato ha esternalizzato la funzione dei trasporti, bensì che chiunque
abbia un autoveicolo con più di 7 posti ci possa attaccare sopra il nome di
una città e usarlo per trasportare gente. Nei “paragens”, una specie di autostazioni rudimentali, esiste addirittura una persona che ti
fa un biglietto e ti assegna un posto; peccato che per strada il
mezzo si fermi per caricare chiunque lo chieda. Il tragitto
Bissau-Quinhamèl costa 500 CFA, anche se mi è capitato che me ne
chiedessero 10.000 dicendo “Io sono l'ultimo che ci va, o vieni con me o
resti qui”. Una supercazzola a cui non ho ceduto, essendo stato
educato dai discepoli del conte Mascetti.
I dipendenti pubblici scioperano perchè
non ricevono lo stipendio da tre mesi; la paralisi della città,
tuttavia, non danneggia il Governo né lo induce a scendere a
compromessi. Essendo moltissimi aspetti della vita comune gestiti da
un singolo e non da un apparato statale, il blocco dei mezzi di
trasporto crea solo problemi ai cittadini e non alla macchina
scassata che è questo Paese.
Tuttavia, i sindacati che hanno
proclamato lo sciopero hanno fatto leva sui tassisti e autisti vari,
aggiungendo alle proprie rivendicazioni quella di ridurre gli abusi
di potere della polizia sui trasportatori; capita spesso che i
poliziotti fermino i mezzi, si inventino un'infrazione la cui multa
vedrà l'importo dimezzato se l'autista è disposto a pagare subito.
Chiaramente quei soldi finiscono dritti dritti nella tasca del
poliziotto.
La solidarietà è durata solo per i primi due giorni; nonostante i sindacalisti picchettassero le zone nevralgiche per
controllare se ci fossero crumiri per le strade, martedì giunge la
comunicazione dei sindacalisti che chiede ai solidali scioperanti privati di
ritornare alle loro mansioni, causa l'eccessiva confusione creatasi e
l'incontrollabile catena di piccole tragedie individuali che
l'assenza di mezzi stava creando. Impossibile chiaramente verificare
l'erogazione dei “servizi minimi”, benchè “serviço minimo!”
sia una delle frasi più invocate nei luoghi di lavoro.
Dopo i primi due giorni di sciopero, in
cui i sindacati chiedevano il pagamento dei 3 mesi di arretrato dei
dipendenti della funzione pubblica, il controllo dei prezzi dei beni
di prima necessità (che con il blocco dei trasporti sono
ulteriormente ma temporaneamente aumentati), oltre che la questione
della sicurezza sociale, il Governo ha aperto un tavolo di
concertazione in cui è stato accordato il pagamento immediato del
primo mese di arretrati dei dipendenti.
Si tratta di punti centrali piuttosto
trasversali, ed è bello che sia una figura istituzionale a guidare
il conflitto di una nazione schiacciata dalla povertà, che ancora si
lecca le ferite di una guerra civile finita 10 anni fa e dalla quale
il Paese non sembra essersi ancora ripreso. Quello che risulta
difficile capire, benchè quello che è successo qui mi sembra ben
lontano dal corporativismo che riempie le piazze italiane dal 9
dicembre, è quanto possa essere efficace il ruolo dei sindacati in un Paese in cui
i meccanismi della democrazia sono stati importati dall'ex Unione Sovietica, in cui l'organizzazione statale è un perfetto
organigramma copincollato dai vecchi Paesi socialisti ma pieno di
buchi e di crepe, in cui i legami istituzionali si mischiano con le
dinamiche sociali che si creano in assenza dello Stato rattoppando la
macchina, che potrà così percorrere qualche altro chilometro fino
alla rottura del prossimo pezzo, all'usura della prossima componente.
Ad ogni modo, la situazione sembra essere tesa visto l'ulteriore rinvio delle elezioni; l'adesione forte allo sciopero, che maliziosamente può essere attribuita alla scarsa attitudine di molti al lavoro, è sicuramente un segnale preoccupante. Di certo qui non ci sono i problemi che colpiscono la "vicina" Repubblica Centrafricana, dove il presidente è stato deposto dai ribelli di Seleke, rivendicando le radici musulmane del Paese che pensano bene di recuperare con processi sommari nei villaggi ai presunti oppositori; il popolo guineense è un popolo mansueto, abituato alla convivenza religiosa e decisamente poco fanatico; ma qui e lì sembrano esserci delle molle pronte a scattare, al di là di sensazionalisti allarmi degli osservatori internazionali (nel mio caso, la polizia federale brasiliana) che mettono in guardia da imminenti colpi di stato.
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Le vendite sotto Natale aumentano, la
giornata va abbastanza bene e torniamo a casa con un buon
gruzzoletto, qualche altra giornata così e siamo a posto anche a
gennaio, dice Mariana.
La strada per Quinhamél è quasi
sgombra di carri e altri mezzi a motore. Rimangono i tutti i tipi di
animali commestibili e non a popolare l'asfalto, e tutte le persone
che in mancanza di alternative si muovono a piedi per affrontare
chissà quanti chilometri. “Patì buleia!” - gridano tutti vedendo
il retro del pickup pieno di cose e non di persone. Patì buleia, in
una traduzione poco fedele corrisponde a “dammi un passaggio”. La
differenza tra il “passaggio” e la buleia è che se ti fermi per
darne una a qualcuno, tutte le persone che ci sono nei paraggi salgono in
macchina anche senza sapere dove sei diretto. Mi è capitato di farla
solo una volta, alla richiesta da parte di due militari di fermarmi;
pensai che se non mi fossi fermato sarei stato rapidamente raggiunto
da una scarica di mitra, e che mi stessero fermando per chissà quale
ragione di ordine pubblico. Volevano solo essere accompagnati
all'ospedale di Quinhamél, dove il fratello di uno dei due era in
cura.
Tornando a casa ci fermiamo per
recuperare Betti, la cuoca, e Mariana mi invita ad ripartire
rapidamente per evitare l'assalto al pickup, ma non ho potuto
fare a meno di ricordare la gratitudine di quel militare che qualche
settimana prima fu sufficiente perchè la giornata scorresse senza
preoccupazioni di sorta. Quella volta anche io avevo contribuito ad
oleare ulteriormente un meccanismo che però ha una scadenza ben
determinata; quando anche questo si romperà definitivamente,
probabilmente l'Africa avrà bisogno di una nuova colonizzazione, o
di una nuova – e questa volta vera – riscossa.
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