Venerdì 18 aprile 2014. Sono in
cima al mirador, sul cerro di sant’Apollonia. Guardo le montagne attorno. Sono
alte ma non sono minacciose, sembrano colli. Il cielo è pieno di nuvole e il
sole filtra con parsimonia. È la prima volta che vengo così in alto e mi
concentro sulle alture. In lontananza vedo il contorno di una montagna dal colore
diverso. Immagino sia la luce che lo fa apparire differente. Poi guardo meglio,
rifletto sulla direzione e deduco che possa solamente essere la zona della
miniera.
Tra le voci dei miei amici filtra
una frase: “Giò, è morto Marquez”. Caspita, mi coglie impreparato. Avevo
seguito poco la sua degenza ma non me lo aspettavo. Che poi forse è sempre
stupido stupirsi e rimanerci male in questi casi. A pensarci adesso però, sul
pavimento della stanza buia e con un bicchiere di rum a fianco, assaporo l’affetto
che attraverso i suoi mondi si è depositato dentro di me.
Ce l’ho stampata in mente quella
montagna mangiata da un mostro che l’ha resa la miniera a cielo aperto più
grande dell’America Latina. Vorrei tanto che fosse uno dei tanti mostri dei
suoi libri, quelli che arrivavano sotto forma di latifondo o di quelle
porcherie lì e che sconvolgono interi villaggi per poi rimanere solo un ricordo
quando finisci di leggere il libro. Ho paura però che così non sia e non posso
che masticare amaro pensando a tutti quelli che in questo libro ci stanno ogni
giorno, come alla voce della donna che qualche ora fa mi raccontava di quanto
sia difficile opporsi al mostro rischiando la vita ogni giorno, sentendosi
soli.
Lui lo sapeva, perché era un
compagno raro. L’amore, la denuncia e il piacere di raccontare.
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