In ogni caso qualcosa la si fa. E
certo non pretendo di risolvere in qualche considerazione il
dibattito atavico tra cos'è meglio - tra il poco che intorpidisce e
il niente che scioglie le briglie dell'iniziativa.
Rimane l'impressione che in potenza si
potrebbero fare un sacco di cose, ma che per un motivo o per un
altro, non le si fanno.
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Il barcone per Bubaque, una delle più
grandi dell'arcipelago delle Bijagos, incute il timore delle tragedie
costiere dell'Italia nostra, anche perchè il viaggio costa solo 3500
franchi CFA e cioè poco più di 5 euro. Sette ore di tragitto – che
potrebbero tranquillamente essere meno, se solo il barista non
allungasse mazzette al capitano per allungare giro per incassare più
proventi dalle bibite.
Le acconciature femminili sono tra le prime cose a catturare l'attenzione; grandi trecce raccolte sulla testa e dreadlocks di ogni dimensione, capelli africani stirati dalla soda caustica o intrecciati con fili sintetici coloratissimi.
Una giovane donna è appoggiata alla
ringhiera più esterna della prua, il suo sguardo triste affascina.
Chissà chi la aspetta, e chissà chi sta lasciando. Un ragazzo
australiano incontrato qualche giorno prima a Bissau è l'unica
faccia conosciuta, lo accompagnano delle ragazze danesi che
riflettono il sole altissimo del primo pomeriggio. I ragazzi della
missione cattolica cantano, ballano e rompono il cazzo per tutto il
viaggio, aggiungendosi alle casse che trasmettono musica rap
guinense in crioulo - e non mi felicito troppo di riuscirne a
comprendere i contenuti. Gli scout guineensi suonano djimbè e
ballano per salutare la barca in partenza, e chissà perchè lo
fanno. Tutte le volte.
Sono indeciso se girare per il barcone
e scambiare parole con gente a caso, o comportarmi da vero “diverso”,
tirare fuori Antar di Wu Ming 2 e finire di leggere quello che
rimane di questa “storia meticcia” a metà tra l'Italia e l'altra
costa del continente nero.
A fare breccia nella mia consapevole
diversità è prima la chitarra di Nicholas, poi l'approccio di
Adriano, 35enne guineense cresciuto nella missione cattolica
italiana, e che lavora nella principale radio del Paese, Radio SolMansi (in criolo Radio solechesorge).
Adriano parla un po' di italiano e mi
intrappola in una conversazione piena di birrette e conseguente
sudore; evito sempre di dare troppa confidenza, purtroppo qui essere
bianchi significa ricevere numerosi approcci e veri e propri assalti;
l'impressione è che chiunque – donne o uomini che siano, in cerca
di matrimoni o amicizie entrambi destinati a durare “desde agora
para sempre” (cit.) - cerchi da te qualcosa in più rispetto alle
relazioni normali cui siamo abituati più o meno tutti, lasciando la
sensazione poco gradevole di non riuscire a creare rapporti che
esistano in virtù di quello che sono: dei rapporti tra persone. Pur
diversamente rispetto a quanto succede in Europa con gli africani –
o per lo meno in Italia – ogni istante ti ricorda che sei diverso,
per quanto ti sforzi di parlare criolo, di aggiungere un sutaque
africano al tuo portoghese e di prendere un po' di colore sotto il
sole; tutte e tre le cose producono solo effetti disastrosi sul
tentativo di omogenizzarsi alle masse, rendendoti solo più diverso e
irrimediabilmente buffo.
Per evitare di parlare troppo, inizio a
fare domande. Che ne pensi della Guinea Bissau, che ti pare che si
possa fare qui per migliorare un po' la situazione.
La Guinea Bissau non produce niente, il
riso è pakistano, il pollo europeo, il pesce se lo comprano i cinesi
che in cambio non si dedicano al landgrabbing o alla liquidazione di
ingenti risorse nelle casse dello Stato, ma costruiscono
infrastrutture, ripropongono un'austera statua di Amilcar Cabral che
sembra un pupazzo della lego in piombo (la precedente era stata
trafugata da una delle piazze principali di Bissau durante la guerra
civile, ora probabilmente sarà in casa di qualche mercenario
senegalese).
La risposta di Adriano è l'inizio di
una lunga conversazione attraverso corruzione, possibilità
imprenditoriali inesplorate dai guineensi (la Crystal la vendono
tutti a 500 CFA? E io apro un chiosco e la vendo a 400. E vedi i
soldonazzi), elezioni imminenti da anni, emigrazione.
Uno dei suoi progetti consta nel dotare
il Ministero di Giustizia di stampanti in grado di consegnare
passaporti con maggiore rapidità di quanto non lo facciano ora,
probabilmente per creare un ostacolo ulteriore alla fuoriuscita di
guineensi dal Paese. Per quanto il tentativo di coinvolgimento in
questa missione da parte di Adriano non attecchisca granchè su di
me, non è il primo a dirmi che dopo le elezioni i soldi per i
progetti che possano essere sviluppati da ONG fioccheranno. La
comunità internazionale avrà più garanzie da un governo
legittimamente eletto, e potrà tornare qui con il suo occhio vigile
e con le sue mani bucate a elargire fondi e a gridare
“sviluppatevi!”. Ma, benchè la settimana scorsa il settimanale
(non esistono quotidiani) “No pintcha” - vicino
all'opposizione e con una tiratura di 1000 copie per un Paese che ha
la stessa popolazione dell'hinterland milanese - riportasse la
notizia di due milioni di euro di finanziamento dall'UE per avviare
il processo elettorale entro il primo trimestre del 2014 rimane una
grande sfiducia generalizzata nella possibilità di andare al voto in
tempi brevi.
Impossibile pagare le birrette con
Adriano.
A Bubaque la prima cosa che si vede
entrando in paese è un grosso cartello di Mani Tese – una ONG
italiana tra le più longeve vicinissima all' “area progressista”
della Chiesa Cattolica Romana Apostolica – che a lettere cubitali
recita “Bubaque cidade aberta”, citando il capolavoro di
Rossellini. Ho conosciuto i cooperanti di MT tempo fa, hanno progetti
ovunque in Africa Occidentale. Sono tutti italiani, alcuni di loro
sono qui da più di 3 anni; in buona parte dei casi si occupano di
riciclaggio e smaltimento di rifiuti. Benchè i consumi in generale siano
piuttosto ridotti, e benchè i mercati “na rua” siano poco
invitanti ma poco avvezzi al packaging eccessivo, il problema dello
smaltimento dei rifiuti esiste eccome. Le strade straripano di
plastica, e nei mercati è facile incontrare delle barricate di
immondizia destinate alla combustione, la sera stessa. Gli odori che
ne derivano sono penetranti e i fumi densi, i braceri di notte sono
tra le poche fonti di luce insieme alle luci al led provenienti dai
“negozi” aperti tutta la notte. Nei villaggi o tabancas
per ogni casa (o gruppo di) si scava un buco, che verrà poi riempito
con tutto ciò che ci si aspetterebbe di buttare in un cassonetto.
Oltre all'inconveniente relativo alle frequenti visite delle iene, la
cui potenza mandibolare giunge sino alle mie orecchie nelle notti in
cui i ridenti quadrupedi decidono di farci visita, la questione
rappresenta un problema non da poco, benchè non sembra che ci sia
grossa consapevolezza in merito. Qua si fa così.
L'esempio di modello di cooperazione di
Mani Tese sembra essere vincente: i responsabili dei progetti sono
nella maggior parte locali, ci sono anche coordinatori e cooperanti
italiani, in Italia si creano partenariati con le Università
italiane per studiare metodi e risoluzione di problemi (in questo
caso, Ca' Foscari) e le soluzioni vengono implementate da chi lavora
sul campo.
Mani Tese ha una barchetta a motore che
collega l'isola con il continente, un ufficio tutto bello pitturato e
pieno di tavoli e computer senza utilizzatori.
A Bubaque, per ora, si continua a
bruciare i rifiuti. E chissà in quanti altri posti.
Esistono moltissime ONG occidentali in
questa zona, e un'altra di queste è la IPHD (International Programme
for Human Developement, USA). La IPHD funziona così: USA sceglie i
progetti e li finanzia, i responsabili dei progetti sono tutti locali
o selezionati attraverso bandi in Europa. I coordinatori dei progetti
in genere sono parenti di ambasciatori o diplomatici. Se IPHD decide
di finanziare la costruzione di una mensa scolastica per incentivare
l'affluenza scolastica tra i bambini e sopratutto tra le bambine (il
rapporto è 83 bambine scolarizzate per ogni 100 bambini), il team
locale fa un sopralluogo, comunica oltreoceano quale sarebbe la
soluzione più funzionale per adempiere agli scopi del progetto, e
dagli USA arrivano materiali di costruzione e cibo. Mandano pure il
riso. C'è chiaramente qualcosa che non va.
In ogni caso, la città è piena di SUV
bianchi con i vetri fumè appartenenti alla IPHD, che comunque c'è
da dire che monitora con una certa assiduità il buon rendimento dei
progetti. E per quanto arrivino dagli USA a peso d'oro, i sacchi di
riso spesso spariscono e le mense scolastiche funzionano solo nei
giorni in cui arrivano i controlli dei SUV bianchi che scorazzano di
villaggio in villaggio.
Buona parte
delle ONG qui lavora solo con i progetti, pochissimi sono i progetti
autosostenibili economicamente; da questo punto di vista fanno
eccezione i progetti come quelli di AIDA, ONG spagnola che si occupa
di fornire supporto agli ospedali pubblici (a Bissau ce n'è uno
solo, il Simão Mendes) che ho conosciuto durante
una conferenza venerdì scorso. Ho capito, oltre al fatto che
effettivamente quando gli spagnoli parlano in portoghese non si
capisce bene che lingua parlino, che per per quanto si possa fare il
possibile e l'impossibile per migliorare le condizioni della gente di
un posto dove si muore per una febbre e dove l'HIV viene fatta curare
dagli “Iran” e non dai medici, con riti sacrificatori al posto dei
retrovirali, i governi mancano moltissimo di responsabilità non
supportando nulla dal punto di vista economico. Il progetto di AIDA
terminerà a fine anno con i tagli del governo Rajoy alla
cooperazione, e le slide che seguono il video riassuntivo del
progetto altro non sono che un grosso appello al governo, di
cui sono presenti alcuni rappresentanti del Ministero della Salute, e
alla comunità internazionale. La cooperazione a un certo punto, per
essere portata avanti, deve diventare politica governativa; quando
finiscono i progetti, molto spesso insieme ad essi si estinguono
delle speranze.
Finché i governi africani potranno estrernalizzare alcuni servizi alle ONG avranno sempre un alibi per deresponsabilizzarsi e lasciar fare ai caucasici. Che ancora troppo pesano "politicamente" in alcune zone dell'Africa. Anche per questo il modello cooperativo a livello macro è fallimentare.
RispondiEliminaSicuramente il modello di cui parli tu è fallimentare, ma non ci si può aspettare in nessun modo che la gente faccia tutto da sola, così come sono convinto che il finanziamento pubblico per implementare progetti sia fondamentale. Se la relazione della cooperazione è unilaterale, sicuramente non funziona sul lungo periodo. Se sono solo i caucasici a giocare a salvare l'Africa, sicuramente non funziona. Ma ti assicuro che esistono realtà per lo più piccole che non solo camminano sulle proprie gambe, ma in cui i cooperanti fanno quello che dicono gli africani e non viceversa. Sono realtà piccole, e non so se si tratta di modelli traslabili su scale più ampie, ma sono una realtà
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