martedì 8 aprile 2014

I Sud sono una invenzione dei Nord

A una settimana dal rientro in Italia, finalmente riesco a prendere il coraggio a due mani per scrivere qualcosa su questo rientro al quale faccio un po' di fatica ad attribuire un qualsiasi odore o sapore. 
Grazie al cazzo - mi direte - è un rientro, mica una zuppa.

Lasciamo un Paese in piena campagna elettorale. “Lo sai che in Guinea Bissau abbiamo due carnevali? Durante il primo sfilano i carri e le maschere, durante il secondo candidati con auto starnazzanti. E ta ngana djintis – ingannano la gente”.
Le elezioni presidenziali e governative si dovevano svolgere a novembre, ma l'iscrizione ai registri elettorali unita al congresso di quello che fino al 94 era il partito unico hanno fatto slittare la data prima a marzo, poi ad aprile; con il sommo rammarico di perdersi questo momento vissuto da tutti come un evento eccezionale, ciascuno schierato col suo e a difenderlo in tutti i kandonga e nelle bancadas. Si presentano in 14 candidati, ma esistono solo 10 partiti. Kumba Yala, presidente nel 2000 dopo aver sconfitto il regime di Nino Viera nella guerra civile e creatore del primo grande partito dall'avvento del multipartitismo e alternativo al PAICG, il Partido de Renovação Social, questa volta sostiene un candidato diverso da quello sostenuto dal suo partito, Nuno Gomes Nabiam. Kumba scompare in circostanze poco chiare, qualche settimana fa; qualcuno dice che se lo sono portato in Nigeria, qualcun altro che è in Guinea Bissau e che verrà processato per un reato non noto. Muore di infarto qualche giorno fa. Nuno Gomes Nabiam indossa lo stesso cappellino tradizionale dell'etnia Balanta che ha sempre contraddistinto il guerrafondaio che si erge a eroe della patria, ora stroncato da un malore - stando alle fonti ufficiali.

Questa volta ci troviamo davanti alle prime elezioni in cui i candidati non hanno raggiunto la fama in quanto fautori dell'indipendenza unilaterale, dichiarata nel 1973. Questa volta c'è candidata l'élite intellettuale. Ma nei villaggi si vota per l'appartenenza etnica, o per un sacco di riso. L'elettorato dell'interno del Paese è un elettorato facile da spostare, molto attaccato ai personaggi storici che hanno segnato la rivoluzione, che continuano a vegliare su un popolo sconquassato dagli strascichi di una guerra che li ha liberati dai tuga, i portoghesi, e che adesso qualcuno ha il coraggio di rimpiangere. Un popolo pacifico che riesce inspiegabilmente ad avere ancora fiducia nei responsabili di guerre civili e colpi di Stato. 
Non scompaiono ancora le figure che hanno condizionato il nascere e gli esiti di una guerra civile inutile e dannosa, che ha lasciato delle ferite ancora aperte e che ha fermato quella che sembrava essere l'emancipazione di un Paese, almeno ai più ottimisti. Bissau ka na diskansa inda – Bissau non si è ancora ripresa.

Non scompaiono i candidati che piacciono all'esercito, la divisione è tra governativi e antigovernativi. Carlos Domingos Gomes detto Kadogo, presidente esiliato dopo essere stato deposto dal colpo di Stato guidato tra gli altri dal colonnello Antonio Indjai (già coinvolto nella guerra civile contro Viera nel '99 e supportato dai separatisti della Casamança senegalese), divide l'opinione pubblica con il suo ipotetico ritorno. Qualcuno tra gli elettori del suo partito – il PAICG – dice che ha fatto il suo tempo (senza neanche essere riuscito a governare pur avendo vinto al secondo turno), che il suo ritorno comporterebbe solo il nascere di nuovi problemi che distoglierebbero l'attenzione dei vigli governanti che amministreranno la cosa pubblica, che non ci sono garanzie per la sua sicurezza, e via giù con le scomode conseguenze di riportare in patria un folle che si è sognato di vincere le elezioni presidenziali. Il suo principale concorrente dell'epoca, Manuel Serifo Nhamadjo e attuale presidente della Repubblica, nel 2012 dopo il ballottaggio sfrutta i malcontenti di una piccola elite militare per salire al potere illegittimamente, avvalendosi dell'inazione che aleggia intorno ad un weak state come la Guinea Bissau. La comunità internazionale rimprovera, l'ECOMIB non riconosce il Governo golpista sin quando lo stesso non piega la testa davanti alla proposta, avanzata dalla comunità di Stati dell'Africa Occiedentale, di formare un Governo di transizione, con le opposizioni dentro in attesa di nuove elezioni. Il risultato è un governo di corrotti pressoché senza opposizione che ritarda il processo elettorale e rifà le strade un mese prima dell'ultimo appuntamento elettorale. 
Grandi intese e trucchetti da sindaci di provincia non sono un unicum della politica italiana.
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All'aereoporto di Bissau ci tocca riaprire le valigie – il controllo è empirico in assenza di scanner – ma il solo fatto che siamo (stati) volontari ha dissuaso i solerti uomini dell'ordine dall'approfondire eccessivamente il contenuto dei nostri bagagli, pieni dei panni regalatici da Raul, dei vestiti sporchi consumati dalla stagione secca, dai pilòn, i pente, le cianfrusaglie e i regali da portare a casa.
Qualche sigaretta di nascosto con i vigliantes nello “stanzino vip”; stavolta il tabacco ha un sapore diverso rispetto a quello fumato in autunno a Malpensa in attesa dell'aereo di andata. Sarà che stavolta una stecca di Marlboro costava sei euro anziché cinquanta.

L'aereoporto di Casablanca aiuta forse a spezzare, non si capisce bene da che parte siamo del Mediterraneo a momenti, tanti turisti dopo tanto tempo, tanti bianchi, il francese, i giardini curati, i pavimenti che riflettono la luce, il fresco, la gente in giacca cravatta e soprabito. Una specie di camera iperbarica.

Il saluto. L'impressione netta di dire arrivederci per poi rivedersi davvero, e continuare da dove ci si è fermati - il che non impedisce alle lacrime di varcare la soglia che le rende visibili. Insieme a qualcuno, senza qualcun' altro, in un altro posto o negli stessi luoghi, ma questa volta poco importa.
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Il viaggio per la Penisola è tutto un sonno.
L'arrivo è un dormiveglia dopo un sonno lungo e pesante, come anche i giorni successivi.
Casa Bertone è la stessa, i divani rossi, i soppalchi, i coinquilini presenti e passati che in qualche modo hanno sempre un posticino tra la polvere e le superfici originarie, e lo stesso vale per gli avventori più affezionati. Per disfare le valigie ci vogliono giorni e molte lavatrici, mentre basta molto meno per riabituarsi ai ritmi e alle abitudini di una casa di studenti. Anche Radio è la stessa, alla sera, durante l'assemblea dei soci. Lo è la gente del Coordinamento, le facce di sempre ma sempre fresche, la plenaria, la cena con un “vecchio” amico.

Le domande erano attese e temute da mesi, ma aiutano a metabolizzare. Qualcuno chiede “Cioè ma davvero te lo volevo proprio chiedere, ci ho pensato per sei mesi, caspita, ma davvero mi vuoi dire che mangiavate riso tutti i giorni?”, qualcun' altro è interessato a sapere com'è sta storia del presidente della ONG in prigione, ma sto stronzo, ma tu pensa un po' che roba.
Io me ne torno a casa con un altro anno da recuperare nella folle corsa all'adempimento degli studi nei sogni di una vita, o nella speranza di fortuna, e con un pezzetto in più a comporre un puzzle senza istruzioni né riferimenti. Con una finestra davanti, al di là della quale si aprono strade nuove e percorsi possibili.
Non ho trovato la ricetta del mondo nuovo e giusto, ma almeno parto dagli ingredienti che ne impediscono la riuscita. Non ho visto le cose funzionare bene, non ho elaborato il sistema definitivo, se penso al “mal d'Africa” di mali me ne vengono in mente tanti tra quelli che affliggono il continente più bistrattato del pianeta.

I panni colorati mi ricordano gli abiti ampi, le tavole rozze, le strade polverose, gli odori forti del mercato di Caracol, i raffazzonati mezzi di locomozione, le folle, i palazzi coloniali, le discussioni accese, la stanchezza ad ogni piè sospinto, i tratti duri, quelli più dolci dei bambini.
Sono immagini che spero non svaniscono, come il briciolo di consapevolezza in più che pesa come un macino nello zaino. Penso di aver capito molto di quello che voglio fare, ma sopratutto di quello che non voglio fare, che farò in modo che non succeda intorno a me, di dove voglio collocarmi nella mappa sconfinata che si articola nel sistema complessissimo in cui viviamo.


Gli amici lontani mandano segnali ad andamenti alterni, la conversazione digitale porta come oggetto “depression international”. Qualcuno di loro è logorato, o almeno pensa di esserlo, qualcun altro è rinvigorito. Io sono ripulito, lavato. Ancora non ho visto il mio Sud.

E nel cortile che ha ispirato i racconti di questi mesi, che ha tenuto insieme i pezzi, ancora non sono riuscito a metterci piede.  

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