giovedì 19 dicembre 2013

Patì Buleia - nomeadamente, a greve em Bissau

Mentre in Italia il movimento dei forchettoni impazza nelle grandi e piccole città riempiendo le strade di una pericolosamente eterogenea massa di gente, un po' di padroncini piccolo-borghesi, un po' di gente inginocchiata dalla crisi contro la quale le proteste non sono iniziate il 9 dicembre – con tanto di blocchi degli autotrasporatori che vagamente ricordano il golpe cileno che l'11 settembre del 1973 portò alla morte di Allende e all'inizio della dittatura di Pinochet - insieme a manfrine tipo “non siamo né di destra né di sinistra” che puzzano un po' di rosso-bruno con tanto di applausi a Di Stefano ai comizi, bene, nel frattempo a Bissau noi facciamo

LO SCIOPERO GENERALE

Oddio, lo fanno loro e tutti quelli che sono costretti ad abbandonare le proprie attività a causa dello sciopero, in un posto in cui la logistica e gli equilibri sociali, insieme agli incastri che compongono un sistema complesso come una capitale africana si reggono su filo di una ragnatela.
Scopro che c'è lo sciopero la mattina stessa in cui lo sciopero inizia, ossia lunedì. Ero rimasto a Bissau dopo la deludente celebrazione della giornata dei diritti dell'Uomo di sabato e domenica, la cui unica nota di colore è costituita dalle mirabolanti performance di danze africane al centro culturale francese con un altissimo tasso di salti mortali e capriole per aria, tutto condito da un senso del ritmo che sembra essere presente un po' in chiunque, qui. Il lunedì dunque mi tocca andare ad aprire Cabaz di Terra – il negozio dei prodotti delle ONG che fanno riferimento al Comercio Justo - dopo un sabato sera a suon di capirinhas (costano 500 CFA, meno di un euro) e una domenica per ripigliarsi a mezzo mandioca e patate dolci, tutto rigorosamente fritto (25 CFA l'una, meno di una goleador) e comprato tra le strade terrose del mercato di Caracol.
Fortuna volle che l'unico africano presente nella casa in cui ero ospitato fosse informato della sollevazione generale, così da consigliarmi la mattina stessa di spicciarmi e cominciare a camminare, chè salvo botte di culo mi attendeva un'ora buona di cammino tra mercati e traffico.

Esco di casa in tempo; conosco la strada, mi avvio cercando con lo sguardo tassisti crumiri o macchine mezze vuote a cui chiedere un passaggio. Il tentativo dura pochi minuti, mi rassegno presto e disinnesco il passo da terrone, unico modo per arrivare in tempo a destinazione. Scopro di orientarmi piuttosto bene, grazie ai ripetuti rally per le strade della capitale e ai giri che il lavoro ci obbliga a fare in questa città il cui assetto urbano non dev'essere stato guidato da un piano regolatore scritto da grandi luminari della materia. Attraverso Jerico, raggiungo i lati esterni del mercato di Caracol prima e di Bandim poi. Ci sono poche auto per strada, e molta meno gente del solito. L'ultima strada prima di incontrare l'asfalto è Mindara, famosa per l'alto tasso di assalti e per la puzza di pesce fumato mista a immondizie di sorta. Meticolosamente ammassate al centro della strada tipo spartitraffico. Quando cerco il tizio che di solito mi vende le stecche di Marlboro a 4300 CFA (una stecca costa quanto un pacchetto e mezzo in Italia), mi rendo conto che il suo contentor è chiuso, come il 90% dei grandi contenitori portuali all'interno dei quali vengono ricavate le lojas nella strada-mercato di Mindara.
Raggiunto finalmente il tratto asfaltato che porta a Bissau Vellho, il quartiere storico dove si trova Cabaz, davanti a me appare qualcosa che assomiglia molto a Pavia a ferragosto. Le strade che solitamente strabordano di auto sono quasi vuote, e i pochi passanti si sbracciano per essere caricati dai pick up di passaggio, quasi sempre senza ottenere nulla. Mi rendo conto che, al netto dei taxi e dei toka toka – che oggi non ci sono a causa dello sciopero – le auto private che girano per la città sono pochissime. 
Il sole reso diafano dalle sabbie del Sahel alzate dai venti Sahariani mi accompagna fino a destinazione; per strada non avverto nessuna elettricità, non si incontrano manifestanti né grandi dispiegamenti di forze dell'ordine; la solita polizia che veglia sulla città dalle sedie di plastica piazzate nelle rotonde e le solite camionette dell'Ecowas piene di militari dell'esercito sovranazionale, in maggioranza nigeriani e armati fino ai denti. Di manifestazioni di piazza neanche l'ombra, arrivato al negozio accendo la radio e cerco di capirci qualcosina in più.

Lo sciopero è stato congiuntamente convocato dalla UNTG (Union geral dos trabalhadores da Guiné) e dalla CGSIGB (confederação geral dos sindicatos independentes da Guiné-Bissau); ho cercato notizie sulla storia di questi due sindacati, ma l'unica cosa che ho scoperto è che la UNTG fa parte dell'ultima versione dell'internazionale socialista, la ITUC (International trade union confederation). Sono entrambi sindacati confederali, rappresentano tutte le categorie di lavoratori; di certo esistono anche piccoli sindacati di piccole categorie, di cui è impossibile trovare le sigle.
L'impostazione è molto simile a quella di tutti i Paesi che nella storia hanno avuto un partito di socialista forte, come lo è stato il PAICG di Cabral; in realtà l'unica categoria con la quale questo sindacato si relaziona per via diretta è quella dei lavoratori pubblici, dato che tutto il resto funziona un po' come capita. L'esempio più clamorosamente di questo funzionamento generale guidato apparentemente dal fato è quello dei trasporti, composto principalmente da taxi, Toka Toka e Kandonga.

I taxi sono tutti uguali, Mercedes tipico anni '80 alla Starsky&Hutch, carrozzeria azzura e tetto bianco. Se vuoi fare il tassista te ne compri uno, e se non ti va di guidare tutto il giorno lo affidi a qualcuno che lavora per te (i guineensi si affacciano a questa pratica come gli europei si affacciano alle start-up, per intenderci); i prezzi sono calcolati sulla base del numero dei quartieri che vengono attraversati per raggiungere la destinazione, oltre che sulla gradazione di bianco che ha la tua pelle. Sui taxi giuro che ci faccio un reportage in pieno stile repubblica.it.
Un toka toka
Il Toka Toka è l'equivalente degli autobus urbani, sono piccoli furgoncini giallo-blu abbelliti dalle più disparate suppellettili e aereografie (gettonatissima quella del Che) con panche al centro e sui fianchi; ci entra una quantità di gente e di merci impressionante. Il viaggio costa 100 CFA sempre, ovunque tu vada; esistono delle linee approssimative rese note all'utenza scrivendone direttamente il nome sulla fiancata del mezzo. Gli autisti toka toka non sono famosi per la loro capacità di calcolare gli spazi di movimento né per la loro delicatezza. Il Kandonga, infine, è il trasporto extraurbano. Inizialmente gestiti dal ministero dei trasporti, attualmente sommersi dalla gestione privata dei singoli; il che non vuol dire che lo Stato ha esternalizzato la funzione dei trasporti, bensì che chiunque abbia un autoveicolo con più di 7 posti ci possa attaccare sopra il nome di una città e usarlo per trasportare gente. Nei “paragens”, una specie di autostazioni rudimentali, esiste addirittura una persona che ti fa un biglietto e ti assegna un posto; peccato che per strada il mezzo si fermi per caricare chiunque lo chieda. Il tragitto Bissau-Quinhamèl costa 500 CFA, anche se mi è capitato che me ne chiedessero 10.000 dicendo “Io sono l'ultimo che ci va, o vieni con me o resti qui”. Una supercazzola a cui non ho ceduto, essendo stato educato dai discepoli del conte Mascetti.

I dipendenti pubblici scioperano perchè non ricevono lo stipendio da tre mesi; la paralisi della città, tuttavia, non danneggia il Governo né lo induce a scendere a compromessi. Essendo moltissimi aspetti della vita comune gestiti da un singolo e non da un apparato statale, il blocco dei mezzi di trasporto crea solo problemi ai cittadini e non alla macchina scassata che è questo Paese.
Tuttavia, i sindacati che hanno proclamato lo sciopero hanno fatto leva sui tassisti e autisti vari, aggiungendo alle proprie rivendicazioni quella di ridurre gli abusi di potere della polizia sui trasportatori; capita spesso che i poliziotti fermino i mezzi, si inventino un'infrazione la cui multa vedrà l'importo dimezzato se l'autista è disposto a pagare subito. Chiaramente quei soldi finiscono dritti dritti nella tasca del poliziotto.
La solidarietà è durata solo per i primi due giorni; nonostante i sindacalisti picchettassero le zone nevralgiche per controllare se ci fossero crumiri per le strade, martedì giunge la comunicazione dei sindacalisti che chiede ai solidali scioperanti privati di ritornare alle loro mansioni, causa l'eccessiva confusione creatasi e l'incontrollabile catena di piccole tragedie individuali che l'assenza di mezzi stava creando. Impossibile chiaramente verificare l'erogazione dei “servizi minimi”, benchè “serviço minimo!” sia una delle frasi più invocate nei luoghi di lavoro.

Dopo i primi due giorni di sciopero, in cui i sindacati chiedevano il pagamento dei 3 mesi di arretrato dei dipendenti della funzione pubblica, il controllo dei prezzi dei beni di prima necessità (che con il blocco dei trasporti sono ulteriormente ma temporaneamente aumentati), oltre che la questione della sicurezza sociale, il Governo ha aperto un tavolo di concertazione in cui è stato accordato il pagamento immediato del primo mese di arretrati dei dipendenti.
Si tratta di punti centrali piuttosto trasversali, ed è bello che sia una figura istituzionale a guidare il conflitto di una nazione schiacciata dalla povertà, che ancora si lecca le ferite di una guerra civile finita 10 anni fa e dalla quale il Paese non sembra essersi ancora ripreso. Quello che risulta difficile capire, benchè quello che è successo qui mi sembra ben lontano dal corporativismo che riempie le piazze italiane dal 9 dicembre, è quanto possa essere efficace il ruolo dei sindacati in un Paese in cui i meccanismi della democrazia sono stati importati dall'ex Unione Sovietica, in cui l'organizzazione statale è un perfetto organigramma copincollato dai vecchi Paesi socialisti ma pieno di buchi e di crepe, in cui i legami istituzionali si mischiano con le dinamiche sociali che si creano in assenza dello Stato rattoppando la macchina, che potrà così percorrere qualche altro chilometro fino alla rottura del prossimo pezzo, all'usura della prossima componente.
Ad ogni modo, la situazione sembra essere tesa visto l'ulteriore rinvio delle elezioni; l'adesione forte allo sciopero, che maliziosamente può essere attribuita alla scarsa attitudine di molti al lavoro, è sicuramente un segnale preoccupante. Di certo qui non ci sono i problemi che colpiscono la "vicina" Repubblica Centrafricana, dove il presidente è stato deposto dai ribelli di Seleke, rivendicando le radici musulmane del Paese che pensano bene di recuperare con processi sommari nei villaggi ai presunti oppositori; il popolo guineense è un popolo mansueto, abituato alla convivenza religiosa e decisamente poco fanatico; ma qui e lì sembrano esserci delle molle pronte a scattare, al di là di sensazionalisti allarmi degli osservatori internazionali (nel mio caso, la polizia federale brasiliana) che mettono in guardia da imminenti colpi di stato.
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Le vendite sotto Natale aumentano, la giornata va abbastanza bene e torniamo a casa con un buon gruzzoletto, qualche altra giornata così e siamo a posto anche a gennaio, dice Mariana.
La strada per Quinhamél è quasi sgombra di carri e altri mezzi a motore. Rimangono i tutti i tipi di animali commestibili e non a popolare l'asfalto, e tutte le persone che in mancanza di alternative si muovono a piedi per affrontare chissà quanti chilometri. “Patì buleia!” - gridano tutti vedendo il retro del pickup pieno di cose e non di persone. Patì buleia, in una traduzione poco fedele corrisponde a “dammi un passaggio”. La differenza tra il “passaggio” e la buleia è che se ti fermi per darne una a qualcuno, tutte le persone che ci sono nei paraggi salgono in macchina anche senza sapere dove sei diretto. Mi è capitato di farla solo una volta, alla richiesta da parte di due militari di fermarmi; pensai che se non mi fossi fermato sarei stato rapidamente raggiunto da una scarica di mitra, e che mi stessero fermando per chissà quale ragione di ordine pubblico. Volevano solo essere accompagnati all'ospedale di Quinhamél, dove il fratello di uno dei due era in cura.


Tornando a casa ci fermiamo per recuperare Betti, la cuoca, e Mariana mi invita ad ripartire rapidamente per evitare l'assalto al pickup, ma non ho potuto fare a meno di ricordare la gratitudine di quel militare che qualche settimana prima fu sufficiente perchè la giornata scorresse senza preoccupazioni di sorta. Quella volta anche io avevo contribuito ad oleare ulteriormente un meccanismo che però ha una scadenza ben determinata; quando anche questo si romperà definitivamente, probabilmente l'Africa avrà bisogno di una nuova colonizzazione, o di una nuova – e questa volta vera – riscossa.  

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