sabato 14 novembre 2015

Per colpa dei buonisti

E’ per colpa dei buonisti che dei ragazzi musulmani stanno affiancando gli operai del comune come volontari per tenere in ordine le strade.
E’ per colpa dei buonisti che a volte, quando vanno all’ospedale, a far la spesa o in posta, gli immigrati trovano qualcuno che gli spiega le regole di quei posti.
E’ per colpa dei buonisti della banda che i ragazzi hanno trovato un posto in cui poter imparare l’italiano e la nostra cultura, dopo che parti di sinistra e chiesa avevano chiuso le loro porte, coscienti che la scuola è una cosa pericolosa.
E’ per evitare di essere buonista che uno stronzo ha rifiutato una fotocopia a un ragazzo solo perché era nero.
E’ per evitare di essere buonista che il sindaco di un comune ha intimidito un privato che voleva avviare un laboratorio di carpenteria per richiedenti asilo in un immobile che, una volta restaurato, avrebbe avuto come destinazione sociale italiani in difficoltà.
E’ per evitare di essere buonista che quell’ispiratore d’odio che parla alla radio queste notizie non le dà, preferendo inventare notizie inesistenti che screditano gli immigrati.
E’ per evitare di essere buonista che c’è chi quelle persone le isola, lasciandogli come unica fonte di dialogo quel cellulare che tanto critica.
E’ per colpa della prof buonista che nelle scuole sono disponibili libri con la traduzione in altre lingue della nostra costituzione.
E’ per colpa di quel buonista coi rasta che dei musulmani hanno dato una mano a rendere agibile l’argine del fiume.
E’ per colpa di qualche squadra di calciatori buonisti che alcuni ragazzi musulmani si son potuti inserire nel campionato di Csi, noto ricettacolo di terroristi.
E’ per colpa di cooperative buoniste che il rapporto con i richiedenti asilo è indirizzato alla corresponsabilità, occasione per abituare la persona ai diritti e doveri.
E’ per colpa dei buonisti che si rendono evidenti le differenze tra chi cerca di fare mediazione culturale in modo serio e chi non ne ha neanche la volontà.
E’ per colpa dei buonisti che i soldi stanziati per i richiedenti asilo vengono spesi per cercare l’integrazione, assumendo operatori e maestre di cui sopra, finanziando tirocini, pagando mediatori, offrendo servizi di traduzione anche ai nostri ospedali e forze dell’ordine…. per colpa dei buonisti che lavorano così che si alimenta il business, che ci va sempre bene, purché non sia con fini sociali.
E’ per evitare di essere buonisti che un gruppo di terroristi ha deciso di utilizzare le ruspe e di abbattere le torri gemelle nel nome di una qualche idea.
E’ per evitare di essere buonisti, in nome dell'”adesso basta”, che un altro gruppo di terroristi ha deciso di uccidere degli innocenti a Parigi e che oggi alcune persone vogliono una risposta militare irrazionale e senza senso sapendo che alimenterà una spirale d’odio con vittime innocenti.
E’ per evitare di crescere bambini buonisti pensanti che nelle scuole si vuole far leggere la Rabbia e l’orgoglio della Fallaci invece che Lettere contro la guerra di Terzani.
Non mi reputo buonista, perché è una definizione stupida e tento di fare il mio lavoro in modo professionale. Se però per semplicità volete trovare un nome al lavorare quotidianamente per la tutela dei diritti di tutti, per la costruzione di una società multiculturale, per il costruire anziché distruggere, allora ve la do io la parola. Buoni!
Noi siamo i buoni e voi siete i cattivi. “Mi dispiace tanto”.

E’ per questo che non posso accettare che si dica che ciò che è successo a Parigi sia colpa dei buonisti. E’ responsabilità di tutti, che non abbiamo saputo dare una risposta decente a un problema complesso in un mondo che non può più risolvere i problemi con i muri.

sabato 7 novembre 2015

FEAR AND LOATHING A NYUNZU


In questo momento storico Nyunzu, situata nell’ex provincia del Katanga,  è una delle località più alla moda del Congo. Non c’è il mare, anche se sembra di stare sempre in spiaggia, e stagione delle pioggie permettendo, c’è un sole che spacca le pietre. Non ci sono grandi bellezze paesaggistiche, è una zona pianeggiante dalla vegetazione non particolarmente lussurreggiante. Il piatto tipico è il fou fou, come in molti altri paesi africani, una specie di polenta molto più densa ed elastica, fatta con farina di manioca o mais, insomma un pappone che ti riempie ma dalle proprietà nutritive praticamente nulle. Il terreno sabbioso non facilita la coltivazione, così ortaggi e frutta non sono troppo facili da reperire, eccezion fatta per i manghi che qui abbondano (purtroppo molto più piccoli rispetto a quelli a cui siamo abituati!).

Ciò che fa di questa località l’ombelico del Congo sono i conflitti etnici, numerosi e persistenti, presenti qui e nelle regioni limitrofe. Il che ha stimolato il carrozzone umanitario a dispiegare i propri potenti mezzi, per alleviare le sofferenze anche di queste popolazioni.
I vari tipi di interventi possibili si inseriscono in un continuum che va dall’urgenza allo sviluppo, il progetto al quale lavoro si posiziona all’estremo tendente all’urgenza.

Il progetto ha fatto seguito ad un sanguinoso conflitto etnico scoppiato ad Aprile  tra Pigmei e Bantu, che ha visto sostanzialmente i primi andare a caccia dei secondi, portando quest’ultimi a darsi alla macchia o a cercare riparo a Nyunzu, dove prontamente sono stati installati campi d’accoglienza per le migliaia di rifugiati.




Il detonatore del conflitto non è stato ancora ben definito, ma secondo alcuni analisti ci sono forti tensioni politiche che fomentano questo e ad altri avvenimenti sanguinosi degli ultimi anni. Il Katanga è infatti da sempre una provincia dalle forti velleità indipendentiste, e come spesso accade tali rivendicazioni sono avanzate dalla parte più ricca del paese: miniere di Coltan, Oro e di altri minerali preziosi (chiaramente con relativi appalti a multinazionali estrattiviste straniere specialmente battenti bandiera cinese) si trovano in diverse zone della provincia, molte delle quali nei dintorni di Nyunzu.

Nonostante i mesi ormai trascorsi, le tracce del conflitto sono ancora evidenti. A Nyunzu c’è un numero considerevole di famiglie “deplacé”, le si può scorgere nei grandi stabilimenti delle ex fabbriche cotoniere, ma il grosso della popolazione è ormai rientrato nei villaggi originari. 

Tuttavia, percorrendo l’asse Nyunzu-Manono, la percezione di “normalizzazione” un po’ cambia: la maggior parte delle case (capanne di paglia e fango) dopo esser state bruciate sono ora in via di ricostruzione, e in molti casi ai muri in terra resi neri dalla fuliggine viene aggiunta semplicemente una copertura in legno e paglia. 


Nella maggior parte dei villaggi è ormai rientrata l’80% della popolazione (stima OCHA), ma percorrendo l’asse ci si imbatte (troppo) spesso in siti completamente abbandonati, vuoti, bruciati. Tra le carcasse nere delle case, si trovano sparsi oggetti di vita quotidiana, evidentemente sacrificabili nel momento della fuga. L’erba alta nasconde già i sentieri tracciati dall’uomo, e la natura cerca di riprendere il possesso di case e scuole ormai abbandonate. Lo stacco è abbacinante, nel giro di pochi km si può passare da siti sotto i riflettori del mondo umanitario, con numerose ONG intente ad offrire i propri servizi in ambito sanitario, nutrizionale, educativo, anche attraverso la costruzione di case, scuole e ospedali. A villaggi spettrali, cancellati dalle cartine, se mai vi sono stati, a causa della follia dell’uomo, e non annoverabili tra i “beneficiari” degli aiuti umanitari a causa dell’assenza di popolazione.

In alcuni casi gli abitanti non sono tornati al villaggio semplicemente perchè quelle persone non esistono più, è il caso per esempio del piccolo agglomerato di Tende. 
Sulla rotta che doveva portarci verso un sito indicatoci da OCHA per l’intervento, dopo aver deviato per alcuni km dall’asse principale la strada finiva in un villaggio, distante ancora diversi km dalla nostra destinazione. Preso il capo villaggio come guida siamo allora ripartiti, di fatto avanzando tra le sterpaglie e seguendo un sentiero appena appena praticabile a piedi (cosa che ci è successo più volte durante le prime settimane di lavoro). Dopo poche centinaia di metri improvvisamente la vegetazione si è aperta, intorno a noi colline brulle: erba verdissima e scheletri di alberi, neri e spettrali, costituivano la trama predominante del paesaggio per diversi ettari, in tutte le direzioni. Qua e la alcune foglioline verdi ci testimoniavano che la vita, nonostante tutto, continua. Giusto il tempo di chiedersi quale potesse essere stata la causa del disastro, che scorgiamo in cima alla collina una decine di case, o meglio quello che ne restava: fango secco annerito dal fumo. 
La nostra guida allora ci spiegò che qui vivevano alcune famiglie Bantù, quasi tutte sorprese nel sonno e bruciate vive dalla follia omicida dell’uomo, insieme a ettari di vegetazione circostante. Con dovizia di particolari ci raccontò da dove arrivarono gli assalitori, e in quali capanne viveva ogni famiglia. Dopodiché fu il silenzio.


Di tutto quello che ho potuto vedere fin’ora questa è sicuramente l’immagine che più mi rimarra impressa nella memoria, una cartolina dal Congo per così dire. 

Una distesa infinita di paletti neri, in un mare di verde abbagliante, e la quite opprimente, tutt’intorno un silenzio pesante, pressante, innaturale, come se quel luogo fosse in sospeso tra passato e presente, e dovesse fungere da monumento alla memoria collettiva. In un momento, è stato come se la consapevolezza della dimensione del disastro mi fosse improvvisamente diventata chiara,cristallina, come un velo che cadendo ti lascia finalmente vedere la realtà nuda e cruda.


Un cimitero sconfinato dalle lapidi nere e scarne.