In questo momento
storico Nyunzu, situata nell’ex provincia del Katanga, è una delle località più alla moda del Congo.
Non c’è il mare, anche se sembra di stare sempre in spiaggia, e stagione delle
pioggie permettendo, c’è un sole che spacca le pietre. Non ci sono grandi
bellezze paesaggistiche, è una zona pianeggiante dalla vegetazione non
particolarmente lussurreggiante. Il piatto tipico è il fou fou, come in molti
altri paesi africani, una specie di polenta molto più densa ed elastica, fatta
con farina di manioca o mais, insomma un pappone che ti riempie ma dalle
proprietà nutritive praticamente nulle. Il terreno sabbioso non facilita la
coltivazione, così ortaggi e frutta non sono troppo facili da reperire,
eccezion fatta per i manghi che qui abbondano (purtroppo molto più piccoli
rispetto a quelli a cui siamo abituati!).
Ciò che fa di
questa località l’ombelico del Congo sono i conflitti etnici, numerosi e
persistenti, presenti qui e nelle regioni limitrofe. Il che ha stimolato il
carrozzone umanitario a dispiegare i propri potenti mezzi, per alleviare le
sofferenze anche di queste popolazioni.
I vari tipi di interventi possibili si inseriscono in un continuum che va
dall’urgenza allo sviluppo, il progetto al quale lavoro si posiziona all’estremo
tendente all’urgenza.
Il progetto ha fatto seguito ad un sanguinoso conflitto etnico scoppiato ad
Aprile tra Pigmei e Bantu, che ha visto
sostanzialmente i primi andare a caccia dei secondi, portando quest’ultimi a
darsi alla macchia o a cercare riparo a Nyunzu, dove prontamente sono stati
installati campi d’accoglienza per le migliaia di rifugiati.
Il detonatore del
conflitto non è stato ancora ben definito, ma secondo alcuni analisti ci sono
forti tensioni politiche che fomentano questo e ad altri avvenimenti sanguinosi
degli ultimi anni. Il Katanga è infatti da sempre una provincia dalle forti
velleità indipendentiste, e come spesso accade tali rivendicazioni sono
avanzate dalla parte più ricca del paese: miniere di Coltan, Oro e di altri
minerali preziosi (chiaramente con relativi appalti a multinazionali
estrattiviste straniere specialmente battenti bandiera cinese) si trovano in
diverse zone della provincia, molte delle quali nei dintorni di Nyunzu.
Nonostante i mesi
ormai trascorsi, le tracce del conflitto sono ancora evidenti. A Nyunzu c’è un
numero considerevole di famiglie “deplacé”, le si può scorgere nei grandi
stabilimenti delle ex fabbriche cotoniere, ma il grosso della popolazione è
ormai rientrato nei villaggi originari.
Tuttavia, percorrendo l’asse Nyunzu-Manono, la percezione di “normalizzazione”
un po’ cambia: la maggior parte delle case (capanne di paglia e fango) dopo
esser state bruciate sono ora in via di ricostruzione, e in molti casi ai muri
in terra resi neri dalla fuliggine viene aggiunta semplicemente una copertura
in legno e paglia.
Nella maggior parte dei villaggi è ormai rientrata l’80% della popolazione
(stima OCHA), ma percorrendo l’asse ci si imbatte (troppo) spesso in siti
completamente abbandonati, vuoti, bruciati. Tra le carcasse nere delle case, si
trovano sparsi oggetti di vita quotidiana, evidentemente sacrificabili nel
momento della fuga. L’erba alta nasconde già i sentieri tracciati dall’uomo, e
la natura cerca di riprendere il possesso di case e scuole ormai abbandonate.
Lo stacco è abbacinante, nel giro di pochi km si può passare da siti sotto i
riflettori del mondo umanitario, con numerose ONG intente ad offrire i propri
servizi in ambito sanitario, nutrizionale, educativo, anche attraverso la
costruzione di case, scuole e ospedali. A villaggi spettrali, cancellati dalle
cartine, se mai vi sono stati, a causa della follia dell’uomo, e non
annoverabili tra i “beneficiari” degli aiuti umanitari a causa dell’assenza di
popolazione.
In alcuni casi gli abitanti non sono tornati al villaggio semplicemente perchè
quelle persone non esistono più, è il caso per esempio del piccolo agglomerato
di Tende.
Sulla rotta che doveva portarci verso un sito indicatoci da OCHA per
l’intervento, dopo aver deviato per alcuni km dall’asse principale la strada
finiva in un villaggio, distante ancora diversi km dalla nostra destinazione.
Preso il capo villaggio come guida siamo allora ripartiti, di fatto avanzando
tra le sterpaglie e seguendo un sentiero appena appena praticabile a piedi
(cosa che ci è successo più volte durante le prime settimane di lavoro). Dopo
poche centinaia di metri improvvisamente la vegetazione si è aperta, intorno a
noi colline brulle: erba verdissima e scheletri di alberi, neri e spettrali, costituivano
la trama predominante del paesaggio per diversi ettari, in tutte le direzioni.
Qua e la alcune foglioline verdi ci testimoniavano che la vita, nonostante
tutto, continua. Giusto il tempo di chiedersi quale potesse essere stata la
causa del disastro, che scorgiamo in cima alla collina una decine di case, o
meglio quello che ne restava: fango secco annerito dal fumo.
La nostra guida allora ci spiegò che qui vivevano alcune famiglie Bantù, quasi
tutte sorprese nel sonno e bruciate vive dalla follia omicida dell’uomo, insieme
a ettari di vegetazione circostante. Con dovizia di particolari ci raccontò da
dove arrivarono gli assalitori, e in quali capanne viveva ogni famiglia.
Dopodiché fu il silenzio.
Di tutto quello
che ho potuto vedere fin’ora questa è sicuramente l’immagine che più mi rimarra
impressa nella memoria, una cartolina dal Congo per così dire.
Una distesa infinita di paletti neri, in un mare di verde abbagliante, e la
quite opprimente, tutt’intorno un silenzio pesante, pressante, innaturale, come
se quel luogo fosse in sospeso tra passato e presente, e dovesse fungere da
monumento alla memoria collettiva. In un momento, è stato come se la
consapevolezza della dimensione del disastro mi fosse improvvisamente diventata
chiara,cristallina, come un velo che cadendo ti lascia finalmente vedere la
realtà nuda e cruda.
Un cimitero
sconfinato dalle lapidi nere e scarne.
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