sabato 7 novembre 2015

FEAR AND LOATHING A NYUNZU


In questo momento storico Nyunzu, situata nell’ex provincia del Katanga,  è una delle località più alla moda del Congo. Non c’è il mare, anche se sembra di stare sempre in spiaggia, e stagione delle pioggie permettendo, c’è un sole che spacca le pietre. Non ci sono grandi bellezze paesaggistiche, è una zona pianeggiante dalla vegetazione non particolarmente lussurreggiante. Il piatto tipico è il fou fou, come in molti altri paesi africani, una specie di polenta molto più densa ed elastica, fatta con farina di manioca o mais, insomma un pappone che ti riempie ma dalle proprietà nutritive praticamente nulle. Il terreno sabbioso non facilita la coltivazione, così ortaggi e frutta non sono troppo facili da reperire, eccezion fatta per i manghi che qui abbondano (purtroppo molto più piccoli rispetto a quelli a cui siamo abituati!).

Ciò che fa di questa località l’ombelico del Congo sono i conflitti etnici, numerosi e persistenti, presenti qui e nelle regioni limitrofe. Il che ha stimolato il carrozzone umanitario a dispiegare i propri potenti mezzi, per alleviare le sofferenze anche di queste popolazioni.
I vari tipi di interventi possibili si inseriscono in un continuum che va dall’urgenza allo sviluppo, il progetto al quale lavoro si posiziona all’estremo tendente all’urgenza.

Il progetto ha fatto seguito ad un sanguinoso conflitto etnico scoppiato ad Aprile  tra Pigmei e Bantu, che ha visto sostanzialmente i primi andare a caccia dei secondi, portando quest’ultimi a darsi alla macchia o a cercare riparo a Nyunzu, dove prontamente sono stati installati campi d’accoglienza per le migliaia di rifugiati.




Il detonatore del conflitto non è stato ancora ben definito, ma secondo alcuni analisti ci sono forti tensioni politiche che fomentano questo e ad altri avvenimenti sanguinosi degli ultimi anni. Il Katanga è infatti da sempre una provincia dalle forti velleità indipendentiste, e come spesso accade tali rivendicazioni sono avanzate dalla parte più ricca del paese: miniere di Coltan, Oro e di altri minerali preziosi (chiaramente con relativi appalti a multinazionali estrattiviste straniere specialmente battenti bandiera cinese) si trovano in diverse zone della provincia, molte delle quali nei dintorni di Nyunzu.

Nonostante i mesi ormai trascorsi, le tracce del conflitto sono ancora evidenti. A Nyunzu c’è un numero considerevole di famiglie “deplacé”, le si può scorgere nei grandi stabilimenti delle ex fabbriche cotoniere, ma il grosso della popolazione è ormai rientrato nei villaggi originari. 

Tuttavia, percorrendo l’asse Nyunzu-Manono, la percezione di “normalizzazione” un po’ cambia: la maggior parte delle case (capanne di paglia e fango) dopo esser state bruciate sono ora in via di ricostruzione, e in molti casi ai muri in terra resi neri dalla fuliggine viene aggiunta semplicemente una copertura in legno e paglia. 


Nella maggior parte dei villaggi è ormai rientrata l’80% della popolazione (stima OCHA), ma percorrendo l’asse ci si imbatte (troppo) spesso in siti completamente abbandonati, vuoti, bruciati. Tra le carcasse nere delle case, si trovano sparsi oggetti di vita quotidiana, evidentemente sacrificabili nel momento della fuga. L’erba alta nasconde già i sentieri tracciati dall’uomo, e la natura cerca di riprendere il possesso di case e scuole ormai abbandonate. Lo stacco è abbacinante, nel giro di pochi km si può passare da siti sotto i riflettori del mondo umanitario, con numerose ONG intente ad offrire i propri servizi in ambito sanitario, nutrizionale, educativo, anche attraverso la costruzione di case, scuole e ospedali. A villaggi spettrali, cancellati dalle cartine, se mai vi sono stati, a causa della follia dell’uomo, e non annoverabili tra i “beneficiari” degli aiuti umanitari a causa dell’assenza di popolazione.

In alcuni casi gli abitanti non sono tornati al villaggio semplicemente perchè quelle persone non esistono più, è il caso per esempio del piccolo agglomerato di Tende. 
Sulla rotta che doveva portarci verso un sito indicatoci da OCHA per l’intervento, dopo aver deviato per alcuni km dall’asse principale la strada finiva in un villaggio, distante ancora diversi km dalla nostra destinazione. Preso il capo villaggio come guida siamo allora ripartiti, di fatto avanzando tra le sterpaglie e seguendo un sentiero appena appena praticabile a piedi (cosa che ci è successo più volte durante le prime settimane di lavoro). Dopo poche centinaia di metri improvvisamente la vegetazione si è aperta, intorno a noi colline brulle: erba verdissima e scheletri di alberi, neri e spettrali, costituivano la trama predominante del paesaggio per diversi ettari, in tutte le direzioni. Qua e la alcune foglioline verdi ci testimoniavano che la vita, nonostante tutto, continua. Giusto il tempo di chiedersi quale potesse essere stata la causa del disastro, che scorgiamo in cima alla collina una decine di case, o meglio quello che ne restava: fango secco annerito dal fumo. 
La nostra guida allora ci spiegò che qui vivevano alcune famiglie Bantù, quasi tutte sorprese nel sonno e bruciate vive dalla follia omicida dell’uomo, insieme a ettari di vegetazione circostante. Con dovizia di particolari ci raccontò da dove arrivarono gli assalitori, e in quali capanne viveva ogni famiglia. Dopodiché fu il silenzio.


Di tutto quello che ho potuto vedere fin’ora questa è sicuramente l’immagine che più mi rimarra impressa nella memoria, una cartolina dal Congo per così dire. 

Una distesa infinita di paletti neri, in un mare di verde abbagliante, e la quite opprimente, tutt’intorno un silenzio pesante, pressante, innaturale, come se quel luogo fosse in sospeso tra passato e presente, e dovesse fungere da monumento alla memoria collettiva. In un momento, è stato come se la consapevolezza della dimensione del disastro mi fosse improvvisamente diventata chiara,cristallina, come un velo che cadendo ti lascia finalmente vedere la realtà nuda e cruda.


Un cimitero sconfinato dalle lapidi nere e scarne.



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