venerdì 18 ottobre 2013

Stessi occhi, vecchi sguardi.



Ieri sera sono rimasto in università fino a tardi, si perchè l’università dove studio è aperta 24 ore su 24, sette giorni su sette. Ci sono guardie armate che ogni tanto si fanno un giro per controllare, ma permettono a tutti di entrare e di usufruire degli spazi. Puoi usare i computre (tanti) disseminati per corridoi e laboratori, oppure puoi metterti a studiare nelle aule, che sono sempre aperte.


Nel pomeriggio invece stavo studiando in biblioteca, un’altro edificio nuovissimo di cui 5 piani aperti al pubblico e il resto uffici. Li ogni piano ha la sua specificità, puoi scegliere se andare al terzo, dove oltre ai tavoli normali, ci sono camere insonorizzate, fatte appositamente per chi deve studiare in gruppo. Oppure puoi andare al quinto, dove ci sono altre camere, arredate quasi meglio di casa mia, con divani e poltrone, dove puoi metterti comodamente a guardare un film su schermi piatti giganti. 
Ah quasi dimenticavo che in ogni piano ci sono ovviamente computer, per studiare e altri appositamente per cercare libri nel database della biblioteca, e scanner, si scanner che ti permettono di mettere su chiavetta tutto il materiale di cui hai bisogno, senza controllo alcuno.


Ogni piano, della biblioteca e dell’università, è provvisto inoltre di grandi vetrate, da cui ti godi lo spettacolo della città illuminata di notte, e delle Ande di giorno. Il Ruco e il Guagua (vecchio e giovane in quicwa) Pichincha ti guardano mansueti dall’alto, e riesci a scorgere dove finisce la città, con le ultime case aggrappate alle pendici delle montagne, e dove comincia la foresta che accompagna la vista quasi fino alla vetta, dove si arriva ai 4000 metri.
Dicevo, che sono rimasto a studiare fino a tardi, era quasi mezzanotte quando sono uscito. Purtroppo a quell’ora non ci sono più nè mezzi pubblici nè bus, o per lo meno non nella direzione in cui dovevo andare io. Così dopo aver aspettato inutilmente che passasse qualche mezzo mi sono arreso alla realtà dei fatti, e mi sono deciso a prendere un taxi, cosa che odio fare perchè mi sa molto di gringo con i soldi, ma non avevo alternative.


Il taxista era un tipo simpatico e gli ho dato chiacchiera volentieri, l’argomento di conversazione più gettonato era ovviamente la qualificazione ai mondiali dell’Ecuador, terza volta nella sua storia. Il viaggio così stava scivolando via, chiacchierando e guardando le strade buie che si susseguivano, ogni incrocio mi avvicinava a casa, una notte come tante altre.


Arrivati all’ennesimo semaforo, verde, troviamo la strada bloccata da alcune auto. Ci fermiamo e cala subito il silenzio, era evidente che fosse successo qualcosa, qui la gente quasi non si ferma quando i semafori sono rossi, figurarsi di notte se sono verdi! Inoltre spesso i taxisti mi hanno raccontato quanto sia pericolo in certe zone fermarsi di notte, anche col rosso, perchè spesso i ladri approfittano della sosta forzata per assaltarti.
Dopo qualche secondo vediamo scendere un uomo dal sedile posteriore della prima auto, la macchina davanti a noi nello stesso momento svolta per una stradina laterale e allora finalmente capiamo perchè ci siamo fermati.


In mezzo alla strada un uomo riverso in un bagno di sangue, non si muove, le braccia messe in una posizione innaturale, immobile, vicino a lui alcuni sacchi della spazzatura fatti a pezzi, e il contenuto sparso per il marciapiede e la strada, chiari segni di lotta, non bisogna essere Sherlock Holmes per capirlo.
I vestiti sporchi intrisi di sangue, la faccia una maschera rossa, dove a malapena si intravede la parvenza di un naso.
L’uomo sceso dalla macchina lo prende per la giacca, lo trascina sul marciapiede e lo lascia mezzo girato sul fianco, con la faccia rivolta verso i fari delle macchine, probabilmente per evitare che affoghi nel proprio sangue, poi raccoglie il cappellino del malcapitato e lo butta in mezzo alla spazzatura. 


Risale in macchina. 


Strada finalmente libera.


Si riparte.


Silenzio.


Pochi metri più in la, sulle scalinate di un palazzo, altri barboni si apprestano a passare la notte, difendendosi dal freddo con coperte sudicie e cartoni. Il taxista scherzando mi dice “Mira, esos son los amigos de ese man”, alludendo in modo ironico (secondo lui) al fatto che a ridurre quel povero cristo così fossero stati i suoi “colleghi” di vita.

Ma non c’è un  bel cazzo da ridere. Pochi minuti dopo sono finalmente a casa, faccio meccanicamente tutte le operazioni di fine giornata, mi spoglio, accendo il pc, musica, pigiama, bagno, uno sguardo distratto e annoiato a facebook, un’altro trepidante alla mail (no, la relatrice non m’ha ancora risposto), qualche sito d’informazione giusto per rodersi un po’ il fegato (tra l’altro il nuovo lyout di repubblica fa cagare), spengo tutto, letto.

Peccato che uno non possa scegliere invece quando spegnere il cervello, chiudere gli occhi non basta per far finire questa lunga giornata. Ripenso a quando vivevo qui, in un quartiere povero del sud (curioso che la povertà sta sempre a sud), lavorando con gli ultimi degli ultimi, quando scene come quella di questa notte erano all’ordine del giorno. Quando la gente collassata a lato della strada, specie durante il fine settimana, era ormai parte dell’arredo urbano, tanto che neanche ci facevi più caso dopo alcuni mesi.

Mi ricordo che tornai a rendermene conto un giorno, era domenica mattina, stranamente ero riuscito a svegliarmi presto, forse per andare a fare una scampagnata al nord. All’angolo della via c’era un parchetto, un pratino con della ferraglia, una volta giostrine per bambini, e un campetto da pallavolo, due pali con un filo teso come rete. Due bambini stavano giocando a pallone, avranno avuto 10 anni, la sfida consisteva nel tirarsi la palla, evitando di colpire un ostacolo che si frapponeva fra i due. Quell’ostacolo non era nient’altro che un uomo, collassato dopo una notte passata a bere birra Pilsener, che non aveva avuto la forza o la volontà di tornare fino a casa.

Nel letto ricordavo e pensavo, a quell’uomo riverso in mezzo alla strada, e a quell’altro che lo adagiava sul marciapiede. Tutt’intorno una cortina di indifferenza mista a paura, abitudine e disprezzo. Nel taxi si poteva sentire distintamente il disprezzo del taxista, e l’odore pungente della vergogna che emanava da me. Io sono rimasto in macchina, non sono sceso, non ho aiutato quell’uomo, non ho chiamato nessuno, nè polizia nè ambulanza. Lasciamo da parte per un attimo il fatto che tanto non sarebbero venuti, un barbone agonizzante non è degno delle attenzioni delle forze dell’ordine nè di qualsiasi ospedale. Ma io l’ho lasciato lì, indifferente come tutti gli altri, una volta risolto il problema e liberata la strada me ne sono andato, come tutti gli altri, mi sono adeguato, ho guardato dal finestrino dell’auto e niente di più, come spesso fa la gente, la stessa che a mia volta disprezzo e critico.


Forse in realtà non avevo molta scelta, si potrebbe dire che sarebbe stato pericoloso, addirittura inutile, i suoi “colleghi” avrebbero potuto assaltarmi, il taxista avrebbe potuto scappare e lasciarmi li, in piena notte, in balia della strada. Forse. Oppure no. Sicuramente questi pensieri non sono bastati a farmi dormire tranquillo ieri notte.

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